Su, dai! È passata! L’obbligo di sembrare buoni a tutti i costi è finito e, salvo complicazioni nella sfera privata (tipo compleanni, matrimoni, battesimi, lauree e altre cerimonie di rito più o meno programmate), per quasi una dozzina di mesi non se ne riparla, e scusate se è poco!
Ora puoi confessarlo, non tanto a me in qualità di psicologo, ma a te stesso in primo luogo: dove avresti voluto mettere il grazioso set di candele di zia Pincapalla?
Mancheremo pure di fantasia, ma a tutti quanti è balenato in mente il medesimo luogo mentre sfoggiavamo il più strizzato dei sorrisi a sofficino.
Ecco, se il set di candele avrebbe trovato una giusta collocazione proprio … lì, non meritevoli di posto migliore lo sono i bagnoschiuma a forma di renna, i profuma ambiente all’odore di “coma diabetico” e i calzini antiscivolo natalizi identici a quelli dell’anno scorso, ma pure di quello prima, e di quello ancora precedente.
Il regalo!
L’espressione più usata di affetto, legame, obbligo, cortesia, riconoscenza o semplicemente buona educazione. Significa “dono al re”; un tempo, che assomiglia a quello delle favole, solo il sovrano infatti poteva riceve qualcosa senza pagarlo, direttamente dai suoi sudditi, e certo non era prevista la pratica dello scambio o del ricambio. La tradizione cristiana ribalta la cosa, con tre re con tanto di baldacchino e mantelli in damasco, che si abbassano a fare un dono, un “regalo” appunto, a un bambino, e da lì parte tutta la faccenda dell’epifania, dei dolcetti ai più piccoli, sostituiti nel tempo dai giocattoli e poi … e poi, diciamocelo, ci siamo fatti prendere decisamente la mano!
Balza la componente età infantile (ho saputo che qui, a Monterotondo, qualcuno ha regalato le autoreggenti alla nonna); balza la circostanza particolare, balza il valore intrinseco che il regalo dovrebbe avere, balza pure la straordinarietà.
Complici, ci scommetterei, i produttori di candele “decorative”, il regalo è diventato un semplice, e al contempo complesso, mezzo di comunicazione, che trova la sua apoteosi nel Natale, quando tutti vengono inghiottiti da una sorta di delirio collettivo nel quale s’impacchetta e s’infiocca qualsiasi cosa.
“Pensare” ai regali assume i contorni di un lavoro, al punto d’infastidirci e stancarci, e senza neppure rendercene conto finiamo per inscatolare parole e idee.
Sì, essendo la pratica del regalo ormai così diffusa, è attribuibile a essa un vero e proprio linguaggio psicologico.
- Con un regalo si dice “ti amo”;
- con un regalo si pronuncia quel “ti voglio bene” che troppo spesso si ferma fra i denti;
- con un regalo si dice “grazie, ti sono riconoscente”;
- con un regalo si chiede un favore;
- con un regalo si ostenta;
- con un regalo si chiede di non essere dimenticati;
- con un regalo si cerca di rendere saldo un legame;
- con un regalo si mostra noi stessi.
Il regalo è pensiero.
E infatti si dice: “Quello che conta è il pensiero …”.
Ok; proprio questo è il problema. Quale “pensiero” può generare un’accidenti di candela annegata nei glitter?
Bene, te lo svelo: un “vaffan@ulo”.
Senza timore di esagerare con i numeri, affermerei che dietro al 99,9% dei bagnoschiuma, dei profuma ambiente, di quel accidenti di candele (che non ti serviranno neppure in caso di blackout perché, primo, saranno coperte di polvere, secondo, non ti ricorderai dove le hai ficcate, terzo, con tutta quella roba fusa dentro e fuori prima che s’accendano è tornata la luce), non c’è semplice mancanza di fantasia. Oh, no, non illuderti! C’è un ben preciso e unico pensiero, forse inconscio ma più probabilmente solo taciuto, ovvero dimostrarti quanto gli stai sui cosiddetti figli di Zebedeo e quanto volentieri avrebbe fatto a meno di spendere anche un micragnoso euro per te.
Aria fritta col fiocco, pernacchie impacchettate, ipocrisie caramellate.
Le accompagniamo al rituale del bacio; roba che pure Giuda si sentirebbe un dilettante.
Ora tutto è passato, e sembra un secolo fa. Non è servito a nulla. Di quello scambio di ipocrisia non è rimasto altro che un brutto regalo ficcato nello sgabuzzino, come un “vaffan@ulo” avanzato, in attesa di essere rimpacchettato con carta fresca e inglobato nella catena del riciclo.
Brutta bestia l’ipocrisia, tanto da essere considerata, in psicologia, una sorta di “malattia sociale”, con tanto di rischio di contagio.
Ipocrisia significa “simulazione”, ovvero finzione, falsità. Ci sono varie tecniche e strategie per riconoscere e smascherare l’ipocrita. Una ad esempio è osservare il suo sorriso: l’ipocrita usa solo le labbra e la bocca, peraltro con evidente fatica, senza coinvolgere il resto della muscolatura del viso che invece, nel sorriso autentico, mette in azione occhi, guance, narici, colorito. Sempre in relazione al linguaggio del corpo, l’ipocrita, toccato anche solo per il saluto, tende a ritrarsi, a spostare il viso, e ancora a ficcarsi le mani in tasca o comunque non mostrarle e gesticolare nel dialogo, a evitare discorsi diretti e personali, a stare seduto come se sotto il sedere avesse un paio di uova fresche di giornata. Ora, non so se possa essere assunto a dignità scientifica, ma a mio parere la candela glitterata è una sorta d’inconscia confessione.
Quindi, prima di riciclarla, pensaci!
Buon vento
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapi a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online