“Sono come tu mi vuoi. Sono bella, perché mi vuoi bella, perché devo essere bella. Sono magra, sono formosa, sono provocante, sono bionda, sono pudica, sono dolce, sono affettuosa, sono ignorante, sono madre, sono attenta, sono sensibile, sono compagna, sono stupida, sono paziente, sono silenziosa. Sono giovane.
Sono colei che tu vuoi che io sia, che il mondo si aspetta che sia, che ho il dovere di essere.”
Potrebbe essere l’incipit della pubblicità di una birra magari, e invece è l’analisi amara di una condizione che richiede la declinazione al femminile; talmente accettata da essere inconsapevolmente acquisita nella quotidianità, nel linguaggio, nel lavoro, per inedia intellettuale, per accidia psichica, stratificata per millenni, indurita addosso e trascinata nella quotidianità materiale e mentale al punto di non accorgerci neppure più di quanto sia asfittico un tale pensiero.
Diventare e non essere, modellarsi, plasmarsi secondo un modello, secondo “Il modello”, quello che funziona, che gira per il giusto verso, ma che soprattutto fa comodo e non crea grane.
È un modo per sottolineare una superiorità di genere, presuntuosamente assurda ma affermata e codificata in leggi tanto scritte che tacite, per millenni. È un modo per umiliare e tenere a bada. È il punto di partenza per l’oggettivazione del corpo femminile.
E poi un giorno lei si guarda. La vita l’ha segnata, nel male e nel bene. Ha lasciato disegni sulla pelle, smagliature sulle chiappe e nel cuore, un po’ di peso superfluo nel giro vita e nell’anima, ma anche tanta ricchezza, forza e un caleidoscopio di sentimenti. Si guarda e vede che la patina del “sono come tu mi vuoi” è diventata una patacca opaca, lisa, scrostata e decisamente stretta, aprendo squarci su quello che ci sta sotto, che è talmente disabituata a vedere da non riconoscerlo. È il tempo della consapevolezza di sé, quello scomodo perché mette di fronte alla scelta: prendere o lasciare, o forse è meglio dire, perdere o restare.
È però anche il momento del “Come sei cambiata!”, che taglia le gambe, chiude la replica e gela il cuore. Ci vuole coraggio a scegliere di essere quella che non piace più, scomoda, sbagliata, magari da cambiare, come una macchina con troppi chilometri. Succede. Succede con una tale frequenza da non accorgerci che succede.
Succede quasi esclusivamente alle donne.
“Sono come tu mi vuoi”, cantava Mina a metà degli anni ’60, ripresa a distanza di quarant’anni da Irene Grandi; “mamma, puttana o brutta copia ‘e n’ommo”, riecheggiavano in modo decisamente più crudo gli Alma Megretta nel 1996. Di mezzo ci sono schiere di donne a un telefono che non suona mai e cafoni coatti, eufemisticamente definiti playboy, che fanno apprezzamenti volgari dalle auto, eufemisticamente definiti complimenti, che loro, le donne, neppure sentono più se a casa c’è chi non glieli fa più (perché secondo una logica del tutto maschile, una donna che per strada si sente urlare “Abbbbona, sei dove te lo metterei ...”, dovrebbe essere felice come una pasqua e soprattutto gratificata, se non addirittura grata!).
Se è difficile essere se stessi per chiunque, doppiamente, se non impossibile, lo è se si è donna. Ma ancor più difficile è sradicare uno stereotipo tossico, profondamente errato, ingiusto.
Tutto nasce da una fandonia religioso/mitologica che, con diverse varianti ortofrutticole a seconda dei luoghi e dei tempi, vede un dio annoiato affettare con una sciabola frutta e lanciarla sul mondo, conscio che per i prossimi mille millenni si godrà lo spettacolo di vedere mezze arance o mezze mele che vagano alla ricerca della loro originaria metà. Suggestivo, romantico. Però fuorviante. Fra l’altro genera una riflessione: per quale meccanismo mentale quando l’uomo favoleggia sulla creazione mette sempre di mezzo la frutta? Mah, varrebbe la pena indagarlo in uno dei prossimi articoli, che ne dite?
Dicevo che la favola è fuorviante in quanto inconsciamente restituisce l’idea di incompletezza. Nessuno nasce metà. Tutto nasce intero. Quello che esiste non è l’incastro perfetto di contorni frutto di una separazione alla nascita, ma correnti mentali che si compenetrano e si rafforzano nell’incontrarsi, comunioni di obiettivi, attrazione reciproca, rispetto, stima. È così che si genera una coppia, partendo dalla consapevolezza della propria interezza e unicità, e non da una macedonia.
Tuttavia è dal gesto insano di quel dio annoiato che le donne hanno recitato il loro primo “Sono come tu mi vuoi”. Consce di non essere la metà di un bel niente, per non diventare polpa da marmellata hanno giocato d’astuzia, adattando la propria superficie a un inesistente e, per questo, perfetto incastro.
“Devi essere te stessa.
Dobbiamo essere noi stesse.
Amati.
Amiamoci.
Devi esigere rispetto per quella che sei, e non per quella che vogliono che tu sia.
…”
STOP!
C’è qualcosa che non quadra in questa sicumera sentita e risentita. C’è qualcosa di fortemente sbagliato. Così non può funzionare.
Basta fare un giro sul web per accorgersi, basta accendere la tv e ascoltare: l’interlocutore, l’oggetto e il soggetto è sempre e solo la donna.
Nella stessa psicologia è così: le colleghe e i colleghi, io stesso, ci rivolgiamo alle donne, incitandole a riafferrare la loro unicità, a svestire i panni secolari e teatrali in cui sono avvolte, a esigere rispetto. Chiediamo loro di denunciare l’ingiustizia, ogni forma di discriminazione basata sul genere. Affermiamo e riaffermiamo i loro diritti, con forza. Anzi, mi permetto qui di aprire una parentesi e uno spunto di riflessione: la psicologia stessa è prevalentemente declinata al femminile, seguita, ascoltata, lasciatemi dire utilizzata in particolare dalle donne, come se nell’universo maschile permanesse una sorta di diffidenza.
È un po’ come se ci sforzassimo di progettare pneumatici resistenti agli atti vandalici lasciando indisturbati coloro che vanno in giro a tagliarli.
Bizzeffe di articoli, interventi, trasmissioni per dire alle donne di non accettare, di reagire, di riappropriarsi della propria personalità, di mostrarsi orgogliosamente per quello che sono. Fiumi di parole per gridare il loro diritto a mettersi una minigonna e attraversare una strada all’una di notte senza essere aggredite, ad andare a una cena, o a entrare in una stanza di albergo senza necessariamente “dovergliela dare”, come si dice in gergo. E poi consigli, milioni di consigli: “Pigiamone di pile o reggicalze di pizzo nero? Beh, dipende se vuoi arraparlo o meno! L’importante è che sia tu a decidere del tuo corpo!”
Ok, sacrosanto, ma quanti hanno il coraggio di declinare la questione al maschile? Sì, c’è un buco nel sistema comunicativo: manca l’uomo!
Manchiamo noi, manco io, come interlocutori principali, come soggetti.
Quante volte avete sentito o letto un discorso sul tipo:
Se ami quella donna, se la rispetti, non rompere, e amala tanto che abbia il pigiamone con gli orsetti che il tanga di pizzo. E se non la ami, se magari neppure la conosci, se la trovi bella, se la trovi brutta, tienitelo per te, rispettala comunque. Rispetta la sua scelta di non dartela, perché non è un tuo diritto neppure se la cena (da asporto, di questi tempi) ti è costata un paio di piotte. Realizza il semplice concetto che lei non può essere eternamente giovane, e che nel frattempo sei invecchiato pure tu, e ti venuta anche la merlite! Ficcati in testa che non sei un guerriero medievale di ritorno da un assedio, e neppure un cacciatore del paleolitico, o un condottiero intergalattico, e che lei non è la vestale in attesa del tuo ritorno; sei semplicemente uno che è rientrato dal lavoro, e probabilmente pure lei, anche se la cosa non la fa sentire per niente eroica. E poi ancora: non
si fischia, non si sbava, non si tocca … Non si insiste, non si perseguita se lei ha detto no, o basta, finisce qui, perché è stalking, è un reato, e spesso finisce assai male, anche con un funerale …
Allora, quanti articoli, quanti post, quante trasmissioni avete visto rivolgersi direttamente agli uomini?
Quanti di noi hanno pensato di organizzarsi e manifestare uniti contro il femminicidio, ad esempio, che ci coinvolge e tira in ballo direttamente, e che è un’innegabile piaga generata da una mentalità errata?
Beh, comincio io, e mi auspico una valanga di adesioni.
Mi trovi in rete, anche per un semplice colloquio, per conoscerci, per intraprendere un cammino di psicoterapia insieme, oppure qui, nella splendida cornice di Monterotondo, dove in questo momento i rami in fiore alleggeriscono persino il pensiero.
Buon vento 😉
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online