Immagina di farti una ferita, profonda o superficiale, estesa o piccola, non ha importanza.
Se hai un organismo sano, con tutto il tuo bravo esercito di anticorpi armato fino ai denti, quella ferita guarirà. Magari ci vorrà tempo o richiederà una sutura, magari lascerà un segno visibile sulla pelle, ma comunque guarirà, non sarà più infetta, non sarà più dolorosa, non sanguinerà più.
Immagina ora di torturare quella ferita: ogni qual volta la vedi chiudersi e smettere di sanguinare, con una punta acuminata la riapri, la scavi.
Cosa succederebbe? Beh, sicuramente una bella infezione non te la toglierebbe nessuno, con conseguenze disastrose che vanno dalla setticemia, alla cancrena, fino alla morte. Attraverso quella ferita perennemente aperta e stuzzicata nel tuo corpo entrerebbe ogni sorta di batterio, fino a invaderti e intossicarti. Di più; per quanto quella ferita fosse superficiale, poco più di una scalfittura, essa si allargherebbe fino a rendere impossibile la ricongiunzione dei margini, diventando dolorosissima, una vera e propria porta di carne viva sulla morte.
E se vedessi che a fare ciò è una persona a te cara? La porteresti da un medico, le legheresti le mani per impedirglielo, oppure, che so, chiameresti la Neuro.
Comportamento sicuramente illogico ma non per questo troppo raro. Si definisce autolesionismo, o masochismo, e consiste nel sottile piacere che si prova nell’infliggersi il male, il dolore fisico.
Dietro, alle spalle, ma soprattutto dentro, c’è un complicato intrigo di fattori, che vanno dalla ricerca della catarsi alla punizione e vendetta nei confronti di qualcuno.
Cosa succede però quando la ferita in cui scavare non è sul corpo ma nella mente?
Si chiama ‘rancore’ e funziona esattamente come la punta di coltello sui tessuti corporei.
La differenza consiste solo nella percezione: nessuno scandalo per chi prova rancore, nessun disgustato volgere del capo, nessuna reazione d’orrore. Al rancore siamo abituati, tanto al proprio che all’altrui. È come se trovassimo normale vivere mantenendo aperta e sanguinante una ferita, evitando con ogni mezzo che cicatrizzi e guarisca.
Da autolesionista esperto pratichi la tua macabra attività di scavo in privato, lavorandoci con attenzione e minuzia.
Giù! Incidi seguendo bene la linea, ora affonda … ecco, così, partendo da un angolino, quello che appare più debole e vulnerabile. Hai spinto bene a fondo? Se senti affiorare il dolore e percorrerti un brivido sì, stai arrivando alla carne viva. Ora rigira con cura la punta. Fa male? non importa, continua a scavare.
E ora che il dolore è vivo, fortissimo, puoi smettere e nutrirti di esso, almeno fino a quando non ti accorgerai che il tuo corpo si ribella e non sente ragioni, cominciando a saldare i lembi fra loro e ricostruendo uno strato di pelle come protezione, lentamente, quasi impercettibilmente, come se non volesse che te ne accorgessi. Ed ecco il momento buono per ricominciare.
Questo è il rancore.
A cosa ti serve? Ti sei mai soffermato seriamente a chiedertelo?
A mantenere vivo il ricordo? Allora riponi poca fiducia nella tua memoria perché essa è in grado di immagazzinare ogni singola e minima situazione che ti è occorsa nell’arco della vita, rimuovendone però il dolore.
Allora che forse sia proprio quel dolore che cerchi?
Sì, non è il ricordo che t’interessa ma arrivare a esso attraverso un dolore sempre rinnovato.
Quanto però sei in grado di vedere lucidamente mentre provi dolore?
Ed ecco che il ricordo si sfalsa, si enfatizza, si nutre di episodi che si sovrappongono, che arrivano da luoghi e momenti distanti ed estranei. Ti costruisci un nuovo ricordo, falsato ma che più ti piace in quanto a sua volta giustifica il dolore che ti stai infliggendo. La ferita originaria non esiste più, i contorni e la profondità sono mutati, si è allargata, caricata di nuove infezioni, incancrenita.
Il rancore ti rosicchia da dentro come un tarlo.
Un giorno mi capitò di vedere uno splendido soffitto a cassettoni. I segni lasciati dal tempo e da quegli animaletti che si nutrono del legno avevano lasciato disegni affascinanti, come un pizzo leggero. Il decoratore che seguiva la ristrutturazione consigliò il proprietario di mantenerlo e trattarlo, lasciando visibile la sua antica storia senza che essa lo soffocasse. Lui però scelse di non intervenire, minimizzando il problema: “Se i tarli non l’hanno distrutto in tanti decenni perché dovrebbero farlo ora?”
E così, rosicchia oggi rosicchia domani, un bel giorno il trave centrale cedette in una nuvola di polvere maleodorante e il tetto crollò.
I tarli si possono fermare e anche fare in modo che i coltelli non affondino più.
Non temere, questo non cancellerà il passato né le offese subite ma permetterà che la tua struttura rimanga solida testimone della tua storia ma anche del futuro.
Un’ultima cosa, l’immancabile nota etimologica:
sai qual è la radice di “rancore”?
Dal latino rancēre ‘essere acido, rancido’. Insomma, uno schifo!
E questo è tutto.
Buon vento
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola