Il migliore in assoluto è stato lui, l’Albertone nazionale nella mitica scena dell’Americano alle prese con il maccherone provocatore, oppure quando mette a confronto l’eleganza della Contessa, che rosicchia con indifferenza una foglia d’insalata, con la moglie buzzicona che si fionda senza ritegno su di un chilo buono di fettuccine; ma pure l’ineguagliabile Totò, con la tarantella degli spaghetti, e ancora Pieraccioni alle prese, per amore, con sushi e sashimi.
Se poi ci va di strafare, possiamo spingerci all’indietro nel tempo, passando attraverso Trimalcione, le nozze di Cana, l’ultima cena di Gesù, i gozzovigli dei Proci, fino a schiantarci su di una donna che al posto delle mutande ha una foglia di fico e si rigira fra le mani una mela prima di addentarla, precipitandoci così tutti quanti in un mare di rogne eterne.
Quando è iniziato questo strano rapporto uomo/cibo?
A quanti millenni fa risale l’ultima volta in cui un uomo non sentì la necessità di caricare ciò che mangia di significati sociali e psicologici?
Nel passaggio da “animale sociale” ad “animale social” poco è cambiato, e così ci troviamo oggi ad avere gli smartphone talmente strabordanti di foto culinarie che quasi quasi puzzano di fritto e, se non li metti in carica, vanno a male.
Fateci caso: vi fermate in un bar per un veloce caffè al banco? Sicuramente vicino ci sarà qualcuno che fotografa la brioche prima di farne zuppetta nel cappuccino; arriva la pizza? Riceve più scatti del giorno della prima comunione, e intanto si raffredda; il piatto esotico poi merita un vero e proprio book da modella di Victoria’s Secret.
E mentre ci si accinge a far fare la giusta fine a quelle pietanze, esse, sapientemente esposte e photoshoppate fanno il giro del globo, raggiungono amici veri e sconosciuti su Instagram, cavalcano l’etere e vengono consacrate all’eternità.
Perché?
Guardiamoci un attimo negli occhi …
Ora dimmi: ma che ce frega?
Che me frega a me di quello che mangi tu, e che te frega a te di quello che mangio io? Ma che ce frega a tutti quanti noi di quello che tutti quanti noi ci mangiamo?
La faccenda non è facilmente liquidabile attraverso la più logica e sincera delle risposte, ovvero che “no, di quello che ci mettiamo in panza non ce ne può fregare di meno”.
Nessuno posta una parmigiana allo scopo di intavolare una discussione sulle due annose scuole di pensiero “melanzana fritta” vs “melanzana ripassata in forno” (comunque fritta batte ripassata 10 a 0!).
La mania di fotografare e postare il cibo altro non è che la versione tecnologica del “Tiè! Beccati questo!”, esigenza arcaica mirata al coltivare e nutrire l’invidia, parola che affonda le sue radici nel latino “videre”, “vedere” appunto.
Scommetto che in molti avete visto Il silenzio degli innocenti, pellicola di grande impatto psicologico oltreché emotivo. C’è in esso una frase, che scommetto non vi sarà sfuggita, che rappresenta la chiave della soluzione del giallo:
“Com’è che si desidera Clarence? Vedendo. Noi desideriamo le cose che vediamo ogni giorno”
L’invidia parte dal vedere, dall’impatto visivo; e cosa è più visivamente impattante di una foto?
L’istantanea di un attimo include e sottintende il mondo misterioso che non rientra nell’obiettivo. Dietro a un aperitivo, a una pizza, a una fetta di meringata ci sono amici, festa, svago, felicità, benessere … o almeno, mostrare questo ne è il reale quanto occulto intento.
L’atto del mangiare, che per troppi nostri simili nel mondo è ancora un miraggio di sopravvivenza (e non dovremmo dimenticarlo, mai!), nella nostra quotidianità è un atto sociale, carico di simbolismi.
Molte delle norme del Galateo, delle quali ancora non ci siamo liberati, sono proprio connesse al desiderio di mostrare l’appartenenza a una determinata classe sociale: il divieto del fare scarpetta (non sanno che si perdono!), il lasciare l’ultimo stuzzichino nel piatto di portata (?), il gustare con un certo distacco il cibo, il divieto del riciclo dell’avanzato, la conseguente demonizzazione della polpetta, sono tutti segnali mirati a dimostrare uno stato di “non necessità”, e quindi per induzione, di ricchezza. In quest’ottica rientra il decorare, la bellezza estetica del piatto, l’immagine, che s’impone sul sapore ma persino sullo scopo primario che è ovviamente quello del nutrirsi.
Il cibo è dunque sfoggio, e mi vengono in mente anche i cestini di frutta finta extralucida che campeggiavano come centrotavola dalle vecchie zie, e su cui sono partite non poche capsule con annesso sonoro vaffa.
C’è una bellissima poesia del crepuscolare Guido Gozzano che può essere letta con l’attualità di una storia Instagram: s’intitola Le Golose, e dipinge le signorine della Torino “bene” di fine ‘800, annoiate da una vita agiata quanto monotona, intente a gustare i pasticcini di un noto ed esclusivo locale del centro dietro le cui vetrine sostava, bava alla bocca e panza vuota, il popolo:
Signore e signorine –
le dita senza guanto –
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché nessun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.
…
Perché non m’è concesso –
o legge inopportuna! –
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,
o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?
Sembra di vederle oggi, queste ragazze del secondo millennio, figlie dei versi del poeta ma anche di Eva e del serpente, postare brevi filmati davanti a una ciotola di ramen o all’ultima creazione di uno chef alla moda!
Mangio ergo sono; ma non sono uno qualsiasi, perché non mangio per vivere ma per postare foto.
Il mio cibo indica uno status, ma anche una carica sensuale e la condizione di appagamento.
Il gelato che oscilla sul cono? Sono fuori e sto passeggiando felice, probabilmente in compagnia di … sono fatti miei; via libera alle congetture!
Gli gnocchi fumanti della nonna? Ho una nonna che mi ama alla follia e cucina per me. E la tua?
La carrellata di portate al ristorante? Sono a una festa, magari un compleanno. Io sono stato invitato e tu che stai spiacchiando la mia storia … no!
Una triste galletta di riso con due carote bollite? Sono a dieta. A breve arriverà l’immagine dei miei addominali scolpiti o del fondoschiena marmoreo che inevitabilmente metterai a confronto con i tuoi, sicuramente flaccidi.
Mi viene anche in mente una pubblicità di qualche anno fa, dove una tavolata all’aperto di gente estremamente raffinata si fiondava a brucare nel prato perché vi si era rovesciato l’aceto balsamico, ovviamente senza perdere la dignità e l’eleganza!
In un mondo basato sull’immagine l’apparire ha la meglio sull’essere e la frutta di ceramica batte quella del banchettaro del mercato rionale.
Il cibo, da sempre simbolo e sfoggio, oggi è anche un facile acchiappa-like, ovvero un veicolo essenziale di comunicazione.
Ok, ci sta. Una foto della carbonara ogni tanto non la nega a nessuno. Quando però si trasforma in ossessione, è bene correre ai ripari e darsi una regolata.
Apparentemente priva di rischi, questa paranoia può diventare estremamente dispendiosa dal punto di vista economico (c’è addirittura chi ordina dei piatti al solo scopo di fotografarli!) e limitare sensibilmente altri e più auspicabili canali di comunicazione.
Instagram, ovvero l’istante di un grammo, una pillola, una scintilla, un’inezia. Questo è e questo deve restare; in questo bel gioco la schiavitù non dovrebbe essere ammessa!
Quindi, quando ti arriva il piatto di maccheroni fumanti, non inforcare il cellulare, ma la forchetta, e fai i complimenti al cuoco! A voce.
Perché social è figo, ma liberi dalle ossessioni è strafigo, e “appena sfornato” è pure meglio!
Buon appetito, buon social e soprattutto, buon vento, che rende liberi.
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online