“Capirà … è la somma che fa il totale”, affermava il principe De Curtis.
“Elementare!”, avrebbe aggiunto Sherlock Holmes.
È proprio così:
- la prima volta quasi ti sfugge;
- la seconda ci fai caso ma ci passi sopra;
- la terza … cominci a pensare che … non “è un caso”;
- la quarta ti preoccupi;
- la quinta …
- la sesta … ti irriti;
- infine, non ce la fai più,
- … e crolli.
Parliamo di mobbing.
To mob = assalire, molestare, affollarsi intorno; derivato anglofono della comune espressione latina “mobile vulgus“, che significa letteralmente “gentaglia che si muove”.
Noi lo usiamo per definire un certo atteggiamento sul luogo di lavoro ma il termine è stato coniato dall’etologo Korand Lorenz negli anni ’70 per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie, in particolare fra gli uccelli, con l’obiettivo di escludere un membro del gruppo o un predatore.
Che si tratti di anatre selvatiche o di specie umana, poco cambia. È un fenomeno naturale, uno dei più crudeli, e risponde al principio base della legge di sopravvivenza, del “mors tua, vita mea”.
Tuttavia, dal momento che, unici fra tutte le specie della terra, siamo maestri nel rigirare come calzini le leggi naturali e trasformarle a nostro uso e consumo, abbiamo pensato che il fattore “sopravvivenza” fosse assolutamente superfluo nell’ottica di un ben più meschino gioco, quello della brama di potere o della semplice sopraffazione.
Ci alleniamo sin dalla prima infanzia, quando cominciamo a essere animali sociali. Si avvicina al gruppo di compagni che giocano, è piccolo, forse timido, ma assolutamente identico agli altri: “posso giocare con voi?”; un “No” secco del capobranco e parte il coro di rifiuti a cappella, NO NO NO … NO. Lui resterà in un angolo, isolato, muto.
Proseguiamo quando scopriamo che oltre a essere animali sociali siamo anche competitivi, e la scuola diventa palestra di vita: è forse il più bravo e diligente, quello che ci offusca all’attenzione della maestra, oppure è quello che ha difficoltà, e quindi non risponde alla regola della presunta normalità del branco, oppure è semplicemente più timido, meno competitivo, la vittima perfetta. Il gioco è sottile e talmente infantile da apparire innocuo, lo scarabocchio sul quaderno, la pagina strappata, i piccoli furti nel portapenne, la colpa che viene fatta ricadere su di lui.
Ci affiniamo nell’adolescenza, quando oltre a essere sociali e competitivi, scopriamo i giochi di potere. Ne abbiamo già parlato in un recente articolo sul cyberbullismo, una delle più subdole ed efficaci tecniche moderne di annientamento.
Nessuno stupore se quindi sul luogo di lavoro arriviamo ben allenati e carrozzati con le unghie affilate e un arsenale di mezzucci subdoli.
Gli attori sono i medesimi, così come il canovaccio e la scena, solo invecchiati e, per questo, ancor più patetici.
Non so se abbiate dimestichezza con il pugilato ma sicuramente avrete sentito parlare di “lavorare ai fianchi”.
Un colpetto a destra, uno a sinistra, e così fino a “sfiancare” l’avversario, sfinendolo, fiaccandone la resistenza non solo fisica ma anche morale; non un secco e onesto cazzottone sul muso, della serie “io contro te, vediamo chi è più forte”, ma una gragnuola di piccole botte che vanno a segno fino a far crollare sulle ginocchia.
Aveva ragione Totò, è la somma che fa il totale.
È una tecnica che gli atleti mettono in atto contro chi sentono più forte, nella consapevolezza di non essere in grado di annientarlo con un ko. Fra colleghi la tecnica è ancora più subdola perché è come se il pugile venisse lavorato ai fianchi da un’intera squadra di avversari.
- Devi fare delle fotocopie per il capo? “non preoccuparti, le ho già fatte io”, ti dice con il sorriso Tizio.
- Quella trasferta che ti era stata assegnata da tempo? “Tranquillo, al posto tuo è meglio che vada Caio”.
- La riunione? “Non è necessario che tu venga, ti riferirà Sempronio”.
- “Sei nervoso. Forse hai bisogno di una vacanza”, ti consigliano premurosi in coro.
Un giorno dopo l’altro, le carte che diminuiscono dalla scrivania, il telefono che smette di suonare, i compiti che si affievoliscono e le ore che passano nell’inedia, mentre Tizio, Caio e Sempronio si affannano e affinano la raffinata tecnica del “lecca … capo”.
Talvolta è proprio lui, lo stesso capo il regista della scena. Il suo scopo? Accompagnarti dolcemente fino all’orlo di quel baratro che si chiama licenziamento, sfinito: “Guarda che bel panorama … o ti butti tu, e non se ne parla più, oppure ti do l’ultima spintarella io”.
Umiliazione, panico, svuotamento, senso di inadeguatezza, autostima che va a pezzi; torni a essere quel bambino del “no, con noi non puoi giocare”, solo che ora la posta in gioco è il tuo futuro e quello della tua famiglia.
- Parlarne? Vuotare il sacco? Sì, ma con chi?
Con quel collega che ti pare fidato? E se sotto quella maschera socievole nascondesse più veleno di un crotalo a digiuno da una settimana?
Con l’amico di sempre? Sei però sicuro di sopportare quel sorriso un po’ troppo compassionevole? In fondo perché non dovrebbe pensare che la vera causa è la tua incapacità?
Con la famiglia? Certo che sì, ma quanto è difficile! Come dirlo? Come reagiranno?
- Ignorare e andare avanti a muso duro?
Ok, ma come? Fare irruzione in sala riunioni quando ti hanno fatto capire che sarebbe stato meglio te ne fossi andato al cinema? Rifare doppie le fotocopie? Rispondere al capo “no grazie, il baratro non è di mio gradimento”? E le conseguenze?
- Denunciare?
Servirà? Ti sarà solo di danno? E se facessi il classico “buco nell’acqua”, cosa ne sarebbe di te?
Alla base di ogni possibile reazione, e soluzione, ci sei sempre e solo TU, saldo su pilastri incrollabili: autostima e sicurezza.
È su queste fondamenta che dobbiamo lavorare, insieme, per ricostruirle, armarle o anche semplicemente rafforzarle.
Che ne dici se cominciamo con il riconoscere e definire il problema, anche solo attraverso un colloquio su Skype?
Intanto goditi anche quest’alternativa, che per ovvie ragioni ho lasciato per ultima …
“Sto da Dio! Praticamente i colleghi mi hanno organizzato questo trattamento …che se c’è da fare una cosa, anche una fotocopia, ti dicono ‘no, tu non sei capace, lo deve fare il tuo collega’. Come si chiama?“.
“Il mobbing…“.
“Il mobbing! come mi rilassa!“.
Ipse dixit. Checco Zalone in Quo Vado.
… tutto sommato! Peccato che la vita non sia un film.
E comunque ricorda … il mobbing si configura come reato. Per saperne di più visita questo sito.
Che un buon vento di autostima vi accompagni.
Consigli di lettura:
Secci E.M. (2007), Mobbing: la faccia impresentabile del mondo del lavoro.