L’Amore ai tempi del Corona

Un metro e mezzo, anche due di distanza.

Nei teatri e nei cinema vige la regola del salto di posto: uno sì, uno no, una occupata, l’altra vuota. Insomma, sistemati a scacchiera, come le pedine nel gioco della dama, e non invece come negli scacchi, dove stanno tutti appiccicati col risultato che l’alfiere infetta il cavallo, il cavallo contagia la regina, la regina starnutisce sul pedone dalla torre, e infine il pedone fa scacco matto e leva la corona al re!

Tornando a casa, rapito dai primi segnali di una primavera anticipata che tinge di colore Monterotondo, ho sentito nella piazza un ragazzo commentare la notizia assieme alla fidanzata:

“Ar cinema co’ la portrona de mezo? E che c’annamo a fà?”

La cosa mi ha strappato un sorriso. E allora sapete cosa ho pensato?

“Stai a vedere che è la volta buona che si resuscita la vecchia cara fratta o la camporella(alla milanese)!”

Insomma, questa cosa della “distanza di sicurezza” ci ha spiazzato non poco, tutti quanti. Da bravi italiani – e non è un luogo comune – lo stare appiccicati ci viene d’istinto, in autostrada, ai semafori, alle poste, a un qualsiasi sportello dove è tracciata una riga fosforescente gialla che moriamo dalla voglia di scavalcare.

E pure io, da psicologo, mi sono trovato un po’ spiazzato …

Solo un paio di settimane fa vi ho spronati a baciarvi alla francese fino a farvi venire le bolle al labbro e la lingua di lana cotta, oggi, per non contravvenire alle disposizioni ministeriali sanitarie, sicuramente sacrosante e giuste, mi tocca fare marcia indietro e dirvi di scambiarvi il bacetto col cuoricino sul foglio a quadretti come alle elementari.

Non discuto sull’utilità pratica delle norme che individuano nella distanza un’efficace strumento di contenimento del virus, però, sotto il profilo psicologico questa faccenda può essere rischiosa!

Distanza di sicurezza …

In natura ogni animale possiede questa regola geometrica, a un tempo elementare e sofisticata, scritta nel suo DNA. Il più delle volte funziona, ogni tanto fa cilecca. E quando fa cilecca sono cavoli amari!

Non c’è quindi da stupirsi se, durante una passeggiata in campagna o in montagna, capita di scorgere un animale che sembra stare fermo invece che fuggire alla nostra presenza. Egli infatti conosce, attraverso una sorta di metro/radar incorporato, che quella “distanza di sicurezza” gli permette strategicamente la fuga. Provate ad avanzare di un solo centimetro e fuggirà alla velocità della luce, anche se non è una lepre.

 

Questo atteggiamento però è strettamente connesso al pericolo, in relazione ovviamente a un potenziale “nemico”.

Ebbene, non è che per noi sapiens i nessi logici funzionino in modo poi tanto diverso! Nella mente il concetto di “distanza” fa scattare l’allarme rosso, e una sirena virtuale comincia a lampeggiare e ululare. Del resto basti pensare all’espressione “mantenere le distanze”, che certo non descrive una condizione di rilassatezza sociale né tanto meno affetto fra simili.

“Distanza” significa dunque non solo prevenzione, ma anche spazio per la tessitura di un bozzolo ermetico intorno a noi, o di una campana di vetro, se preferite questa metafora. Ognuno nella sua bolla, come nel Giardino delle Delizie di Bosch, o in una canzone di Ghali (sto nella mia bolla sto nella mia bolla …), per parlare un linguaggio diretto con i giovani. Dobbiamo dunque essere particolarmente forti, equilibrati e abili per gestire al meglio, e in ottica solo positiva, questo forzato e innaturale distanziamento.

 

 

Un metro e mezzo, anche due … ovunque, e con chiunque.

“Non me toccà!”

Non è da sottovalutare questo provvedimento che trasforma la nostra quotidianità in una sorta di film di fantapolitica, e assolutamente non da criticare, perché è innegabile che l’assenza di contatto influisca sull’interruzione del contagio. Dobbiamo, ripeto, solo imparare a gestirlo senza lasciarcene travolgere.

E sono convinto che ci riusciremo, che rispetteremo, saremo obbedienti, attenti e ne usciremo, magari un po’ ammaccati, ma rafforzati. Tutti … o quasi tutti!

Non mi è infatti difficile immaginare gli imminenti auguri di Pasqua solo brevemente accennati, a suon di occhiolini e baci volanti; non mi fa per niente strano pensare a colleghi di lavoro che, con la scusa del decreto, si evitano come la peste; riesco pure a concepire cene fra amici e compagni di scuola senza le consuete manate sulle spalle goliardiche e senza il rituale dello spilluzzico da un piatto all’altro. Mi sbilancio e aggiungo la previsione che la sintomatologia da Covit19 sostituirà il mal di testa in sede di letto coniugale.

Ho anche buone ragioni per pensare che persino le madri riusciranno a limitare le esternazioni affettuose nei confronti del proprio figlio, nel sacro nome della prevenzione, e che la medesima cosa sapranno fare addirittura i nonni e le zie, notoriamente campioni mondiali di sbaciucchiamento a sangue del nipotino.

Verranno rispolverati i bavaglini con la scritta “Non baciatemi”, in grande voga negli anni sessanta/settanta e oggi rivenduti al mercato nero assieme all’amuchina e alle mascherine chirurgiche.

Niente esternazioni corporee. Ok, fino a qui la faccenda non fa una piega.

Ma chi lo va a raccontare agli adolescenti?

Chi va a dire a due sedicenni, ventenni con gli ormoni corazzati che no, per un mesetto buono si possono solo mandare bacetti emoticon?

La vedo dura, e aggiungo che, vivaddio, va bene così!

I ragazzi continueranno a baciarsi. Devono continuare a farlo, anche se cascasse il mondo.

Continueranno ad amarsi utilizzando il corpo. Eviteranno magari di farlo in pubblico.

Si prospetta in verità una situazione anche un po’ comica.

Quando un adulto, di quelli geneticamente rompi …bip ovviamente, coglierà una coppietta con gli ormoni al galoppo, non borbotterà la solita e ritrita frase

“Maleducati! Non vi vergognate?”, bensì “Attenti! Che vi prendete il corona virus!”

E così, come ipotizzavo all’inizio, si riscoprirà l’ebbrezza della camporella, quel luogo magico ultimamente un po’ dimenticato, con il cielo per soffitto, fra il verde e le cicale, oltre alle formiche assassine che ti rosicchiano il sedere proprio sul più bello.

Fra l’altro l’aria aperta dovrebbe limitare i pericoli di contagio, e l’imminente primavera allungare la resistenza alle temperature. Aggiungiamo che le scuole sono chiuse, e quindi gli adolescenti focosi sguinzagliati per tutta Italia sono stimabili in numero di qualche milionata.

Diciamo pure che è la somma a fare il totale, e che pertanto l’equazione “gioventù + primavera + libertà – scuola / (diviso) ormone” dà un risultato difficilmente calcolabile attraverso un decreto ministeriale!

Questo è l’amore ai tempi del Corona.

Proprio qui a Roma scriveva, giusto qualche annetto fa e in un’epoca certamente non estranea a epidemie e contagi, il poeta Catullo:

Viviamo, mia Lesbia, e amiamo,
e valutiamo le chiacchiere dei vecchi bacchettoni un soldo appena.
I soli possono tramontare e sorgere; noi, una volta tramontata la giornata della vita, dovremo dormire una notte eterna.
Dammi mille baci, poi cento, poi altri mille, poi ancora cento, quindi un’altra volta mille, poi cento.
Dopo, quando ne avremo messi insieme molte migliaia, li rimescoleremo, per non sapere quanti sono, o perché nessun maligno possa gettare il malocchio, sapendo che tanti possono essere i baci.

Che peraltro suona ancora più bella in latino (suona è il termine giusto, perché, con tutti quei “deinde” e “dein”, sembra riprodurre il suono di campanelle, quelle che si sentono quando ci si innamora e che tendiamo a non ascoltare più con lo scorrere del tempo):

… da mi basia mille, deinde centum, dein mille altera, dein secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum.

Buon vento, e provate ad ascoltare ancora le campanelle.

Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online

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