E’ più facile che l’insegnamento venga assorbito tramite il racconto di una storia che per mezzo del rigore di un ragionamento.
Chi non conosce Platone? Una delle colonne portanti della filosofia. Eppure Platone non ha mai scritto un trattato di filosofia, le sue riflessioni più significative sono sempre avvenute attraverso delle narrazioni. La filosofia, per Platone, nasce proprio da quella forte emozione che spaventa e allo stesso tempo attira e coinvolge, incute soggezione e affascina. La filosofia non scaturisce da una decisione freddamente razionale, ma da uno stato d’animo di stupore. Uno stato d’animo che si interroga e si pone delle domande. Gli uomini hanno iniziato a fare filosofia proprio nel tentativo di spiegarsi certe cose. Il racconto è la forma in cui emerge maggiormente la stretta connessione tra gli aspetti più razionali e quelli più affettivi. Il piacere di raccontare storie, dunque, non sembrerebbe più solo un piacere, ma un bisogno.
Ma cos’è una storia?
Un racconto delle avventure di un essere umano, in genere scritto in prosa e di breve estensione, in cui predomina il fantastico, sia negli episodi, sia nei personaggi. Il racconto di una storia implica sempre un confronto ed una riflessione.
Un milione di anni fa (circa), la scoperta del fuoco permise ai nostri antenati di cuocere i cibi, scaldarsi e tenere lontani i predatori, ma non solo.
Le fiamme accese allungarono le giornate, offrendo un luogo di ritrovo e un’occasione in più per chiacchierare e tessere relazioni sociali. Intorno a quei falò, tra una storia e l’altra, si rafforzarono le tradizioni culturali, si sviluppò l’immaginazione e si imparò a fare gruppo.
I raduni intorno ai falò funzionavano come una sorta di “social network”.
Ne è passato di tempo da quei falò, grazie a Darwin, ci siamo evoluti ed ormai nel ventunesimo secolo, immersi nell’era della digitalizzazione, anche le storie sono in smart working e da qualche anno il falò dei social network, come Instagram e Facebook, arde sempre più voracemente e viene alimentato dagli utenti di tutto il mondo.
Nel mio lavoro da psicoterapeuta, ascolto molte storie, ma ultimamente, mi trovo spesso catapultato in una sorta di metateatro pirandelliano, dato che mi accade di sentir parlare di storie nelle storie. Infatti il racconto delle persone che ascolto verte spesso sulle relazioni e, per questo motivo, le storie dei social hanno fatto prepotentemente irruzione anche nella stanza del mio studio di Monterotondo: “Federico ha messo questa storia, davvero non capisco cosa voleva dire”.
Chissà, probabilmente nemmeno il postatore della storia lo saprà, o forse si, sui social network ci lasciamo coinvolgere dal flusso narrante delle storie, dimenticando che ognuno di noi ha una storia, motivo per cui ognuno vede nel mondo ciò che porta nel cuore, per dirlo alla Goethe, ma questa è un’altra storia, perciò torniamo a noi.
Qualcosa, nelle storie social, segue ancora la tradizione: si raccontano le avventure straordinarie di esseri umani, nelle quali predomina il fantastico.
Infatti esse mostrano agli altri solo aspetti interessanti e positivi. Ostentare, provocare, esibirsi… Sul palco avviene solo la performance, il resto meglio lasciarlo dietro alle quinte.
Le storie dei social sono diventate una sorta di abitudine quotidiana per milioni di persone. Nel rituale di tale abitudine, una particolare condizione (ambientale, emotiva…), che necessita di una gratificazione, spinge il cervello a svolgere la routine per ottenere la ricompensa gratificante. Un maggiore impegno nella creazione di contenuti coinvolgenti aumenterà il numero di visualizzazioni. Un numero di visualizzazioni più alte rappresenta una ricompensa emotiva. La ricompensa positiva stimolerà un maggiore impegno nella creazione di contenuti coinvolgenti… Questo loop infinito è riassumibile nella scritta “To be continued…”.
Come vampiri assetati, guardiamo le storie sui social e interagiamo con esse. Le guardiamo per riconoscerci e le postiamo per farci riconoscere.
Ma se stanotte avvenisse un miracolo e da domani iniziassimo a visualizzare noi stessi anziché pensare alle visualizzazioni? Cosa cambierebbe?
Voglio concludere riportandovi alla mente la storia della “Bella e la Bestia”: solo quando la Bestia riesce ad accettare se stesso e ad accettare di essere amato per quello che è, può tornare nel mondo degli umani.
Le storie possono essere usate per spodestare e per malignare, o per potenziare e umanizzare. Le storie possono rompere la dignità di un popolo oppure possono riparare quella dignità infranta.
Le storie che amiamo di più vivono in noi per sempre, non nell’archivio dei nostri social.
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Buon vento 😉
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM) e ONLINE