Logorio, logorare, logoro, logorato.
Sostantivo, verbo, aggettivo. Parole.
Le parole evocano immagini. Queste a me fanno pensare alla stoffa.
Non una stoffa qualsiasi, ma una robusta, resistente, tipo da divano, tappezzeria, abiti da lavoro, jeans.
Non succede nulla di particolare a questa stoffa, nulla se non l’usuale, normale, quotidiano utilizzo.
Facciamo ora che questa stoffa ricopra un divano.
È bella, forte, damascata magari, se si tratta del divano del salotto buono di nonna, oppure lineare, essenziale, di design.
Studiata e creata per resistere al tempo, alle decine di chiappe che vi si adagiano, grosse, secche, spaparanzate a appoggiate in punta, ai salti dei bambini, alle gambe accavallate davanti alla tv, alle scarpe sporche, ai pop corn, al caffè bollente che lascia comunque l’alone anche dopo averlo smacchiato, al cane che ci si rotola, al gatto e alle sue dissacranti unghie, alla passione improvvisa degli amanti, alle notti rabbiose se tua moglie ti caccia lanciandoti, bontà sua, il cuscino e un plaid, alla cenere delle sigarette che distrattamente si lasciano consumare.
Resiste, resiste, … subisce, non cede ma si assottiglia, oppone resistenza ma le fibre si smollano, cerca di rimediare allargandosi un po’, ma perde tensione. Alla fine cede, e si lacera.
Lo stesso succede ai jeans.
Lì risiede la loro forza e il segreto del successo. Sono resistenti, e infatti pare nacquero come indumenti da lavoro, per i marinai, inizialmente, e poi per minatori e cercatori d’oro.
Sfrega oggi, sfrega domani, viene però il giorno che cedono, e non in quei punti e in quel modo che li rende tanto di moda e pure più belli, ma nel bel mezzo della chiappa, o al cavallo, fra le cosce. E lì finisce la loro gloriosa carriera.
La stoffa è diventata logora. Ecco il punto. E quando arriva a lacerarsi causa logorio, non c’è rimedio.
Una stoffa logora non si rammenda, non si ricuce, non si aggiusta. La bravura di chi tiene l’ago non serve a nulla: là dove andrà a infilarlo, la stoffa si lacererà, allargando lo strappo sempre più a ritroso.
Al limite bisogna ricorrere a una toppa, bella larga, agganciata ai pochi punti ancora sani. Brutta, non c’è che dire. Oppure comprare un bel copridivano e nascondervi sotto lo scempio, che però, per quanto non visibile, rimane.
Con una stoffa sana, non logora, invece è diverso: uno squarcio, un taglio netto, un violento strappo, possono essere ricuciti. Essa non perderà resistenza, e se chi cuce è bravo, non si noterà nulla.
In fondo noi siamo assai simili a una stoffa.
Damascati oppure semplici, ricamati o grezzi; nasciamo fragili e sottili, con pochi intrecci appena abbozzati, ma quando siamo pronti ad affrontare il mondo siamo diventati belli spessi, robusti, a prova di macchia e di strapazzo.
Culi, bambini, cani, amanti, che ci si strofinano addosso senza tregua, e anche senza riguardo, senza pietà, rovesciando contenuti, scalciando, sbavando, senza togliersi le scarpe, facendoci qualche bruciatura.
A poco a poco ci logoriamo. Quando poi arriva la lacerazione, se riusciamo e abbiamo voglia di tribolare, proviamo con una grande toppa, se no, ci buttiamo sotto a un bel paravento, in modo da non mostrare il brutto spettacolo della nostra ferita aperta e lacerata.
È così che funziona il logorio.
Uno dei più grandi attori mai esistiti, Charlie Chaplin, denunciò con forza il logorio in quello che è un film cult, un capolavoro che dovrebbe essere studiato a scuola come opera d’arte: Tempi moderni.
In ritmi ossessivi e muti dipinge la catena di montaggio di una fabbrica, innovazione dei tempi del trionfo dell’industrializzazione, non ancora del tutto conosciuta e quindi idealizzata.
Nulla di estremamente faticoso. E qui risiede la trappola.
Avvitare un bullone. Un gioco da bambini, persino divertente, che non comporta né sforzo né particolari doti. Avvitare un bullone. Tutto qui, e per questo ti pagano. Un sogno per chi era destinato a grandi fatiche per portare a casa il pane.
Avvitare un bullone. Semplicemente avvitare; un gesto semplice, da sinistra a destra, e c’è pure il lubrificante a renderlo facile.
Avvitare un bullone. Poi due, dieci, mille, diecimila. Avvitare per otto ore, ripetendo quel gesto semplice, per nulla faticoso: da sinistra a destra, e ancora, ancora, ancora. Avvitare addirittura mentre si consuma il pasto, così da non interrompere la produzione. Tanto è un gesto facile, semplice, senza fatica.
Ecco, questo è il logorio, che condurrà il protagonista alla follia e alla fuga.
Capito dove sta la fregatura?
Nell’assenza di violenza.
Uno strappo nella stoffa, un taglio, oppure il compiere azioni faticose, come sollevare pesi, zappare, spaccare pietre, presentano una violenza istantanea che spaventa. La quotidianità, il ritmo leggero, che si consuma nel silenzio, invece no.
Mentre però allo strappo, al taglio netto, si può rimediare con un buon rammendo, e la fatica fisica è un campanello d’allarme per dire “basta, fermati!”, il logorio non ha soluzioni accettabili, e conduce verso il precipizio.
Capita la metafora?
Non è la sfuriata, la litigata, lo scambio acceso di vaffanculo a minare i rapporti e il nostro benessere. Non è l’evento inaspettato e doloroso, che agisce come una lacerazione, ma che comunque, con attenzione e perizia, può essere ricucita.
È quel tricchete – tracchete continuo, quel tormento ininterrotto al quale facciamo l’abitudine perché “ma sì, dai! In fondo non è nulla di così insopportabile!”.
È l’atteggiamento scostante e distaccato di chi ci sta vicino, che mai si presenta con un sorriso avvolto da un nastrino rosso, che mai si sforza di dire che un piatto è buono, che quel taglio ti dona, che hai l’aria stanca e potreste riposarvi un po’ insieme sul divano. Questo ti logora.
La mente, l’anima, si assottigliano, infine cedono, si sfrangiano, e riunire i margini diventa impossibile.
Non arrivare a questo.
La raccomandazione vale doppio. Potremmo dire che è double face.
Non lasciarti logorare, ma anche non logorare.
Il copridivano, mettilo prima, ma solo come protezione, non per nascondere.
Intervieni subito sui piccoli strappi; non lasciare che il tempo li allarghi.
Sii consapevole di una verità inconfutabile: il tempo usura, ed è normale che accada. C’è magari bisogno di un intervento di fondo, radicale. Insistendo sulla metafora del divano, è magari necessario l’intervento del tappezziere per fare un nuovo rivestimento robusto, bello, e magari pure più attuale. Vedrai che il risultato sarà eccellente.
Compra un buon tiragraffi per il gatto.
A riguardo di quest’ultimo punto, più da uomo che da psicologo, ti dico che le possibilità di successo sono assai scarse.
In poche parole, è improbabile che al micio di casa interessi qualcosa del significato della parola “rispetto”, e quindi si sentirà autorizzato a logorare il bracciolo quanto e come gli pare, facendosi un baffo del tiragraffi che amorevolmente gli hai comparato.
Ok, mettiamolo in chiaro da subito: è un’eccezione!
Per tutti gli altri casi invece segui i miei consigli, e cerca l’aiuto di uno psicologo.
Se ti capita di passare da Monterotondo, beh, mi farà piacere conoscerti, se no, ricorda che è possibile avviare un colloquio anche attraverso skype.
Buon vento.
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online