Ero follemente innamorato degli occhi verdi di una ragazzina della classe accanto quando il supplente di latino fece crollare il mondo rivelando che per i romani dell’epoca di Giovenale l’iride verde era brutta come la paura.
Gli occhi verdi; ma vi rendete conto? Quelli da gatto, misteriosi, vellutati, screziati di mille pagliuzze nei toni dal sottobosco fino all’oro. Quelli la cui immagine mi faceva perdere nell’iperuranio nel bel mezzo di una lezione. Eppure no, ai miei antenati non piacevano, anzi, facevano schifo proprio, al punto di considerarli motivo di satira
E manco piacevano i magri, le donne in particolare; se poi erano alte, la disgrazia diventava catastrofe. Ci rendiamo conto che Angelina Jolie sarebbe stata uno scarafone gradito solo a mamma sua!
Mi colpì pure la frase di un film del mitico Albertone, nel quale incontrando una bellissima attrice dell’epoca, chiedeva conferma del fatto che per mantenere la bocca minuscola bevesse l’acqua con un cucchiaino. Anni luce dalle fauci di Julia Robert, giusto per citare un cavo orale famoso, e dalla concezione attuale di bellezza che esige bocche grandi, carnose, decisamente d’impatto.
Nei tempi e nei luoghi più remoti di questo nostro mondo, nel quale sotto sotto vige il detto “non è bello ciò che è bello, ma ciò che piace”, ha avuto i suoi momenti di gloria la panza, la pelle cadaverica, l’hanno avuta le occhiaie, i sederoni bassi, i nasi abnormi. E prima o poi sarà pure la volta della pelata, sono pronto a scommetterci.
Quindi, esiste la bellezza?
Davanti al profilo perfetto di Nefertiti dobbiamo affermare che sì, la bellezza incontestabile esiste e si erge al di sopra di tempi, usi e costumi. Ma c’è un dilemma ben più pressante
esiste la bruttezza?
No, non esiste. Al limite, se ti vedi brutto probabilmente hai solo sbagliato epoca, o continente, per venire al mondo.
Non piacersi, sentirsi inadeguati, imbarazzati. Avvertire il proprio corpo come ingombrante, oppure invisibile, inconsistente. Odiare la propria immagine allo specchio, non riuscire a comprarsi nulla di nuovo perché ci si vede orribili appena dismessi i panni usuali, divenuti quasi una divisa. Addirittura rinunciare a una vita sociale.
Si traduce nella non accettazione di sé, nell’ossessione del tempo che passa, e la colpa non è necessariamente da ricercarsi nella presenza di larddominali là dove si vorrebbero avere gli addominali, di un naso che quando metti gli occhiali assomiglia a quelli da carnevale che vendono in edicola, e neppure degli anni che sembrano decuplicare la forza di gravità sui tessuti e sui ruderi di quello che fu un glorioso apparato muscolo scheletrico. La colpa è del bombardamento mediatico che senza troppi giri d’immagini e di parole ti dice che o sei al top, o sei un fico da paura, o fai schifo.
Le cose stanno però ultimamente cambiando. E siccome questi sono i tempi della velocità estrema, stanno cambiando molto celermente, al punto di lasciarci pure un po’ sconcertati. Onore quindi alle tante iniziative intraprese in campo pubblicitario, e dai brand più seguiti, per riequilibrare un po’ le sorti di chi non nasce con lo stacco di coscia da angelo di Victoria’s Secret. Eppure, a dimostrazione di quanto siamo sottomessi allo stereotipo, spesso queste iniziative le critichiamo e deridiamo. Non esiste infatti un’unica forma di body shaming , ovvero quella palese, esplicita, configurata a tutti gli effetti quale reato, persino di istigazione al suicidio, e come tale perseguibile. Ne esiste una forma più occulta, ma non per questo meno grave soprattutto dal punto di vista psicologico. È quella inconscia, che esercitiamo al riparo delle nostre mura domestiche davanti alla tv o navigando in rete; è quella che ci porta a ridacchiare della ragazza in carne che pubblicizza il deodorante o una marca di assorbenti, a commentare l’invecchiamento del personaggio noto di turno, oppure le labbra lievitate piuttosto che lo zigomo sospetto.
Ciccione, cesso, befana, gallina; sono solo alcuni degli epiteti che, seppur bonariamente, usiamo con molta leggerezza e frequenza, molto spesso peraltro declinati al femminile perché il fisico, malgrado il mutare dei tempi e degli usi, continua nell’immaginario sociale a essere appannaggio quasi esclusivamente del genere femminile.
Insomma, siamo campioni di contraddizione intrinseca: giustamente lamentiamo l’imposizione di un’idea di bellezza talmente stereotipata e sottilmente erotica da essere la base persino della pubblicità di un bullone o di una colla, dall’altra ci scagliamo con violenza e cattiveria nei confronti del naso un po’ prominente di una modella che calca le passerelle di tutto il mondo, o dei rotolini adiposi sui fianchi di una splendida presentatrice, piuttosto che delle rughe di un’attrice che qualche decennio fa ha fatto sognare l’intero mondo.
La domanda non è quindi se esiste la bellezza, perché come abbiamo visto la risposta è sì, essa esiste. E giustamente ci affascina, ci attrae. Non è neppure se esiste la bruttezza, alla quale abbiamo già risposto, in modo forse un po’ paraculo, che no, non esiste. Anzi, diciamo pure che il punto non è né la domanda né la risposta, ma la percezione del valore che diamo a entrambe.
Come già evidenziato, stiamo vivendo un momento storico e sociale di grande attenzione nei confronti delle problematiche legate al corpo. Il massiccio uso dei Social ha da una parte dilato e amplificato il fenomeno del bullismo mirato a colpire le caratteristiche fisiche non rispondenti allo stereotipo, anche con la diffusione mediatica incontrollata, dall’altra però ha portato alla luce e all’attenzione di chi (moda, pubblicità, spettacolo) ne gestisce la percezione, una piaga che da sempre prolifera nel sommerso.
Chi non è stato colpito dalla tragicità delle sequenze di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, in cui con crudo realismo si racconta il dramma intimo del “Soldato Palla di lardo” che si traduce in una furia omicida e suicida che funge da riscatto. Ancor prima, Luchino Visconti, nel suo capolavoro “Bellissima”, aveva sbattuto in faccia al mondo il pianto di una bimba derisa dietro i riflettori, chiamata “scimmia”, sbeffeggiata da un gruppo di registi e tecnici adulti, e la maschera penetrante di una Magnani indimenticabile il cui sguardo avrebbe fatto vergognare anche un paracarro in cemento.
Body shaming, ovvero “umiliazione del corpo”. Ne siamo o ne siamo stati tutti vittime, e, seppur inconsapevolmente, tutti ne siamo un po’ carnefici, basti pensare che interessa il 94% delle ragazze adolescenti e circa il 60% dei ragazzi, con una tendenza alla crescita per questi ultimi. Colpisce in particolare per il peso, ma anche per la bruttezza, per la bellezza, per l’essere anonimi; colpisce attraverso i media, alimentando una comicità volgare e malata (vedi l’esempio del film “Bellissima” sopra citato) che non ha argomenti se non quello di fare facilmente cassetta, colpisce attraverso il pregiudizio e la chiusura mentale di chi non è in grado di uscire da uno schema di comodo. Feroce è il body shaming nei confronti della categoria transessuali, per esempio. Ne deriva una percezione del tutto sbagliata della propria, ma anche dell’altrui, fisicità, che si traduce in anoressia, vigoressia, depressione, asocialità, isolamento.
Non è il corpo che deve essere cambiato, ma la mente. E perché la mente collettiva cambi, il cambiamento deve iniziare nella mente del singolo.
Bene, visto che oggi ci siamo sbizzarriti con le citazioni cinematografiche, voglio ricordarvi un altro film iconico: Il diario di Bridget Jones. Ebbene, quella magistrale scena delle mutandone contenitive è forse il punto d’inizio di un fenomeno che oggi definiamo Body Positivity, e che altro non è che la presa di coscienza, a livello mediatico, sociale e comunicativo (riflettendosi poi ovviamente sul personale), che ogni fisicità è rispettabile. Il che non significa necessariamente che sia bella.
I media usano l’eccesso per la comunicazione perché è attraverso l’effetto impattante che generano la scintilla della reazione. Ciò si traduce in movimenti che, anche in modo rabbioso ed urlato, incitano ad affermare la dignità del corpo che si possiede, a esigerne il rispetto a partire da noi stessi: rifiutare la depilazione, mostrare le cicatrici, la cellulite, non nascondere le conseguenze del ciclo. Ciò suscita un comprensibile sgomento in molti di noi; è però necessario comprendere che è solo la parte emersa e visibile di un percorso mentale assai più complesso e che, come un iceberg, parte dal profondo, dal sommerso della nostra stessa psiche per giungere al desiderio di distruzione dello stereotipo.
Bene, si è fatta una certa, come si dice dalle mie parti, a Monterotondo per la precisione.
Mi auguro di cuore che dopo la lettura di questi miei pensieri chiunque di voi abbia una visione più positiva, o almeno obiettiva, del proprio corpo, nella consapevolezza che tale visione, affinché sia realistica, deve essere sempre mediata e interfacciata con tutto il ventaglio di caratteristiche morali, etiche, psichiche che fanno di ogni individuo un unico irripetibile e prezioso.
Ebbene, la psicoterapia viene incontro con straordinaria efficacia nell’ottenimento di questo risultato. Per ogni problema di autostima, per altri sintomi connessi all’accettazione di sé, per le conseguenze di bullismo o attacco mediante le caratteristiche del corpo, per il sospetto di sintomi quali anoressia o vigoressia, chiamami. Ho attivato anche la possibilità di consulenza on line, che in particolare di questi tempi offre la concreta possibilità di non restare soli, malgrado le restrizioni imposte dalla situazione sanitaria
E allora, buon vento, e alla prossima.
… dimenticavo …
Alla facciazza di Giovenale: thiè, beccati questa! (State guardando gli occhi verdi, vero?)
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online