Questa volta devo confessare che mi sento un po’ spiazzato. È un senso d’impotenza che non mi piace affatto e che mal si concilia con il mio ruolo.
È una confessione che faccio a volto aperto e che mi porta ad affrontare questo argomento, sebbene trito e ritrito, chiedendo in tutta umiltà il tuo aiuto diretto.
Lo psicologo che chiede aiuto al paziente. Assurdo.
Sì, però non è colpa mia, e neppure tua; qui non si tratta di professionalità e persino la volontà assume contorni marginali. Insomma, nello scrivere questo articolo mi sento un po’ come Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento …
Ti starai chiedendo a quale strana patologia mi riferisco ma il problema è che non sono neppure sicuro possa essere considerata patologia, o malattia, almeno nella sua accezione consueta, e ciò in ragione del fatto che quando un comportamento diventa consuetudine e la sua diffusione è pressoché totale, per quanto sbagliato e rischioso possa essere diventa “normalità”.
È giunto il momento che mi spieghi: voglio parlare di dipendenza da smartphone. Ma non di quella “dipendenza” vera e propria, patologica appunto, che conduce all’ossessione, alla rinuncia al sonno per non volersene staccare, alla fobia e al panico in sua mancanza. No, parlo della consuetudine, di quell’accettazione più o meno consapevole che ci coinvolge in massa. Paradossalmente è più semplice trattare il “caso estremo”, in quanto è la stessa eccezionalità a renderlo trattabile.
Per spiegarmi meglio, è un po’ come se affermassi che “devi respirare aria pulita”. Tu stesso (e con “tu” intendo “noi tutti”), sei al contempo la vittima e la causa dell’aria che respiri. Puoi anche isolarti per qualche breve tempo, ritirati in un’oasi incontaminata, ma devi vivere, lavorare … e allora rientri in un sistema di cui sei parte integrante. Senti l’aria pesante e grigia che ti entra nelle narici, ti sporca la pelle; ne sei infastidito ma consapevole che anche tu usi l’auto, il riscaldamento. Puoi anche, in preda a uno spirito coscienziosamente green, ridurre al minimo indispensabile i tuoi consumi ma continuerai a essere vittima e sorgente di quell’aria. Ok, ma in fondo che puoi fare? E che posso fare io? A che serve dire “devi respirare aria pulita”? assolutamente a nulla. Entrambi siamo due gocce nel mare e affinché avvenga un reale cambiamento tutte le gocce dovrebbero d’improvviso mirare alla medesima meta.
Dipendenza da smartphone. Ma quand’è che diventa dipendenza? Che cosa deve succedere di più affinché sia tale? Quale forbice c’è tra la tua normalità e la patologia vera e propria?
Vitale per l’anziano, essenziale sul lavoro, indispensabile nella vita di tutti i giorni, già “di serie” nel bambino; innegabilmente utile e altrettanto innegabilmente soffocante.
Ti rende sempre e ovunque reperibile, sempre e ovunque informato e connesso; ti permette di avere tutto sempre e ovunque sotto-controllo ma di essere anche tu sempre e ovunque sotto-controllo. Come rinunciare a tutto ciò?
Libero in un mondo di liberi e schiavo in un mondo di schiavi.
Bene, io stesso non ho alcuna intenzione di rinunciarvi.
Eppure non si può certo dire che il “problema” non sia sentito. Facciamo una prova, una semplice ricerca su web: 161.000 risultati in meno di 7 secondi.
Il paradosso nel paradosso? Cercare con lo smartphone, “dipendenza da smartphone”.
Ora facciamo (e la prima persona plurale non è un caso …) un piccolo test:
- A cena con un gruppo di amici posi il cellulare accanto al piatto?
- In un viaggio in treno, guardi il panorama fuori dal finestrino?
- Durante una lunga attesa, sfogli una rivista?
- Se devi dire una cosa non particolarmente urgente a un tuo familiare, aspetti di vederlo a casa o usi Whatsapp?
- Hai un cartaceo della rubrica telefonica?
- Se devi ricordarti qualcosa, un film, un libro, una data storica, cerchi di fare uno sforzo mnemonico o preferisci smanettare sul web?
Quante ce ne sarebbero di queste domande!
E ora apri con me Whatsapp … sfoglia a campione le conversazioni. Sinceramente, quante ne vedi di realmente indispensabili?
No, non rientriamo nella sfera del patologico, da curare, siamo semplicemente nella più totale “normalità”. E questo è appunto il problema.
Più o meno consapevolmente ma comunque volontariamente e sicuramente a passi lunghi e veloci stiamo cancellando una parte molto importante della nostra vita, quella più essenziale: il contatto diretto con i nostri simili ma soprattutto con chi si ama.
Quanti di noi ricordano le serate in famiglia, magari noiose ma insieme. Insieme realmente, faccia a faccia, a cena, davanti alla televisione: si discuteva, si rideva, semplicemente si parlava. Anche ora lo si fa, ma ognuno con il suo smartphone in mano:
“guarda qua …”, “Tizio ha postato questo …”, “Caio ha scritto quest’altro …”, “ma dai! Sempronio ha cambiato stato”, “aspetta che chiedo al gruppo quand’è la festa”, “la mia collega ha appena messo una storia”, “… aspetta, come si chiama quel film? Ecco, vado su filmografia…”.
No, non siamo ancora patologici ma, come affermavo all’inizio, è solo perché la consuetudine ha scavalcato i limiti della patologia.
Allora, se anche tu avverti che qualche cosa non va, percepisci che stai perdendo qualche cosa della tua libertà, dell’autonomia di pensiero, del sottile piacere del contatto diretto, del semplice esercizio di memoria, pensa che prevenire è meglio che curare.
Sei esattamente nella condizione opposta a quella di Don Chisciotte: quelli che hai di fronte sono autentici mostri, e non mulini a vento!
E ti prego, non andare a cercare su Google chi era Don Chisciotte … piuttosto parliamone insieme, ma faccia a faccia.
Buon vento, … che faccia girare le “pale” nel giusto verso …!
Federico Piccirilli
Psicologo Psicoterapeuta
Terapia Breve
Terapia a Seduta Singola
CONSIGLI DI LETTURA:
De Cervantes M., Don Chisciotte, Einaudi