Bulimia o buli-nostra?

Certo non può essere buli-sua. Il problema non è infatti così personale o privato come a prima vista potrebbe apparire.

Il termine viaggia associato a un altro che mette ancor più paura: anoressia.

Per tutti è chiaro che si tratta di anomalie che riguardano la sfera dell’alimentazione tuttavia spesso il modo di approcciarsi a entrambe fa acqua da tutte le parti.

Disturbo, problema, malattia? Sulla bulimia in particolare aleggia una sorta di velo d’ignoranza malgrado la parola sia di uso comune. Uso e abuso, molto spesso. Uso, abuso e confusione, per la precisione.

Cerchiamo allora di puntualizzare per prima cosa quali siano le differenze sostanziali, e per farlo affidiamoci alle parole stesse, che mai mentono. Lo so, questa storia dell’etimologia è noiosa e magari un po’ troppo scolastica ma non mi stancherò mai di ripetere che se ci rendessimo conto a monte del significato originario delle parole che pronunciamo saremmo tutti più competenti.

In realtà è molto semplice e d’immediata comprensione:

  • anoressia, dal greco, composto dalla negazione più la parola “appetito” = Mancanza di appetito;
  • bulimia, sempre dal greco, anch’esso composto da due parole, “fame” e “bue” = Fame da bue.

Succede dunque che nell’anoressia ci sia il rifiuto ad alimentarsi, che diventa alla lunga impossibilità, incapacità del corpo a recepire il nutrimento; nella bulimia invece si cerca di soddisfare ogni possibile voglia, ingurgitando grandi quantitativi di cibo per poi liberarsene attraverso vomito indotto o purganti.

Già così dovremmo aver tolto ogni dubbio sulla differenza: mancanza nel primo caso, eccesso nel secondo, due comportamenti estremi e opposti che puntano alla medesima conseguenza: minare corpo e salute.

Conseguenza sì ma non scopo.

Sicuramente esistono situazioni legate a patologie mediche che inducono all’errata percezione del rapporto con l’alimentazione, situazioni in cui la psiche non gioca che un ruolo marginale: malattie, medicinali possono influire sull’istinto e di conseguenza sul piacere dell’alimentarsi in modo regolare e corretto. È questa però altra materia.

Non voglio neppure addentrarmi ad analizzare le cause legate e connesse a criteri estetici e di moda, che comunque relegano il problema come un prodotto dei “nostri tempi”. Tanto questo aspetto è ampiamente discusso e conosciuto.

Desidero invece andare un po’ a monte, fino a indagare quello strano rapporto che il genere umano in particolare ha nei confronti del cibo. Lo scopo è quello di fornire spunto per qualche riflessione.

L’alimentazione porta con sé un bagaglio di significati che travalicano la mera necessità di sopravvivenza.

Nel cibo c’è legame affettivo, socialità, piacere.

Attraverso il cibo si ama, si seduce, si creano e consolidano legami.

Il cibo si regala; gesto prezioso e sommamente amichevole, più gradito dei fiori.

Il cibo è arte, e a caro prezzo; trionfo di colori e profumi.

 

 

 

 

Non stupisce dunque che il cibo, drappeggiato di tutti gli infiniti significati plasmati attraverso la storia e le società, sia anche arma offensiva, di ricatto e offesa.

Tutti abbiamo sperimentato il capriccio del bambino che per ottenere ciò che vuole ricorre al rifiuto di mangiare; tutti, anche in età adulta, lo usiamo per “fare un dispetto”, al partner, alla mamma, alla suocera.

C’è un significato atavico in tutto questo: quando ancora siamo incapaci di sostentarci da soli, l’essere alimentati è il più basilare e profondo legame che sperimentiamo. Lo recepiamo anche come dovere sociale, tant’è che lo sciopero della fame è una delle più sfruttate armi al fine del riconoscimento di diritti negati o anche di semplice ascolto.

Credo che ora cominci ad apparire chiaro che cosa volevo intendere con “buli-nostra”.

Il problema è ben più profondo di quanto si pensi e affonda le radici in quel “dispetto” o “ricatto” cui ho fatto cenno.

È un cercare attenzione, attraverso il rifiuto o la cattiva gestione della più basilare delle nostre necessità, ma è anche una dichiarazione di guerra, contro noi stessi e la vita in primo luogo.

Lo stereotipo associa tanto anoressia che bulimia a una donna, giovane, molto giovane, che ha desiderio di raggiungere un modello estetico basato sulla magrezza. Non possiamo svincolare dalla responsabilità questo aspetto, è ovvio: i canoni fisici sono estremamente pressanti in una società basata sull’immagine qual è la nostra. Tuttavia, come detto, fermarci a questo è un grossolano errore.

Alla base di tutto vi è il male di vivere, oppure, per astruso, il vivere male.

Vivere male i rapporti: con il proprio corpo, con gli altri, con il mondo.

Attraverso il rifiuto a nutrirsi si denuncia il rifiuto alla vita, il peso insostenibile che essa esercita.

Che cosa succede nella mente del bulimico?

In realtà il punto di partenza è più lineare che nell’anoressia, che coinvolge molti più fattori. Si parte da un semplice desiderio di dimagrire, per piacersi, piacere agli altri, avere successo, essere accettati. Ma come può una banale riduzione dell’apporto calorico trasformarsi in tragedia?

 

 

Semplicemente inanellando una serie di reazioni a catena basate sui “se”:

  • se mangio di meno dimagrisco
  • se dimagrisco è perché assumo meno calorie
  • se non assimilo le calorie dimagrisco
  • se dunque mangio ma riesco a evitare che il mio corpo assimili, raggiungo due scopi: la soddisfazione del cibo e la perdita di peso.

È un circolo chiuso dal quale è impossibile uscire seguendone il binario.

La trappola consiste nell’illusione del controllo attraverso la compensazione: dare e togliere al contempo.

Uscirne significa rompere l’incantesimo:

  • cedere al piacere del cibo e accettare che il corpo lo assimili
  • rinunciare al piacere dell’eccesso.

Le conseguenze sul fisico, per quanto più dilatate nel tempo rispetto all’anoressia, sono disastrose e coinvolgono più organi, dalla dentatura che si deteriora alle mucose che tendono a ulcerarsi, ma altrettanto allarmanti sono quelle che riguardano la sfera psichica.

Si pensi solo alla difficoltà di sostenere un perenne inganno e alla perdita del controllo sulla propria volontà.

Anche per chi vive con il bulimico la faccenda non è semplice. Anche quando il sospetto si tramuta in certezza resta l’incognita del “dopo”. Ha promesso che non lo farà più, ha giurato che mai più quelle dita s’intrufoleranno fino nel fondo della gola ma come esserne certi? Pattugliare fino fuori della porta del bagno? Ascoltare ogni rumore? Fiutare ogni odore?

No, non basta, non serve se non marginalmente ma soprattutto non risolve.

Ciò che caratterizza i disturbi alimentari compulsivi è la muta dichiarazione di una totale autonomia di gestione del proprio corpo, l’onnipotenza su se stessi.

Il pulsante che può interrompere il circolo vizioso è nella mente, e lì va ricercato; il passo successivo è saperlo azionare con successo.

Parola d’ordine: non attendere!

 

 

Buon vento!

 

Di certo è, come dice la saggezza popolare, che “uccide più la gola della spada”.

Quel che però la saggezza popolare non sa è che il gioco con la morte o con la negazione di sé è già cominciato prima di sedersi a tavola, e affonda le sue radici in quella profonda incertezza in cui si tratta di decidere se esistere o non esistere.

E siccome è il cibo la prima condizione d’esistenza, spetta al cibo e alla gola mettere in scena un tema che alimentare non è, ma “radicalmente” esistenziale, perché va “alla radice” dell’accettazione o del rifiuto della propria esistenza.

Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, 2003

 

Federico Piccirilli

Psicologo, Psicoterapeuta

Terapia Breve

Terapia a Seduta Singola

Consigli di lettura:

vi rimando a un mio passato articolo che mi viene voglia di rititolare in: L’appetito vien amandosi!

 

 

 

 

 

 

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