“La parte più difficile è stata quando ho visto chiudere nel doppio sacco nero che finirà all’inceneritore le poche cose sul comodino della paziente 221.
Che brutta cosa vero numerare le anime! Da qualche parte ho sentito questa frase: “Quando l’uomo classifica con i numeri sta pensando all’olocausto”.
Oggi mi sembra di vivere nell’olocausto, di esserne parte attiva e passiva.
Vorrei poterli chiamare tutti per nome, ma lo strazio è troppo grande, e allora mi rifugio nell’asetticità delle cifre. È più facile, ora più che mai.
C’era veramente poco su quel comodino ordinatissimo: l’immagine di Gesù accuratamente scocciata in una busta di celophanne, una piccola rubrica del telefono, la ricarica del cellulare e alcuni pezzetti di carta su cui aveva tracciato, con una scrittura faticosa e carica di dolore, alcune preghiere e i nomi di coloro ai quali quelle preghiere erano destinate. Ho letto di sfuggita anche una personale richiesta di perdono. Il cellulare, di quelli ormai quasi preistorici, lo teneva stretto in mano.
La paziente 221, della quale in realtà ricordo benissimo il nome, aveva 81 anni e al mondo una sola figlia, due nipoti visceralmente adorate e un genero. Prima di morire mi ha stretto la mano mentre mi raccontava che presto avrebbe rivisto il suo sposo e il loro cane.
Le ho chiesto se aveva piacere di salutare la sua famiglia attraverso il mio telefono. Mi ha risposto di no. Voleva che le sue nipoti conservassero di lei il ricordo di una nonna preziosa, e non inutile come ripeteva di sentirsi, e comunque le sarebbe stato più difficile morire guardando negli occhi coloro che amava.
È toccato a me fare quel numero, neppure mezz’ora dopo: – Buonasera, sono la dottoressa …
E intanto guardavo quelle poche e povere cose, più luminose e preziose dei diamanti, finire nel buco nero del sacco nero. Ho pensato a mio padre, la stessa età, che non vedo da tre settimane, a mio figlio, che domani compirà 18 anni e da mesi preparava la festa, al mio compagno, che ha persino imparato a fare la lavatrice da quando io sono chiusa qua dentro e me ne fotto se sia giorno o notte.
Qual è il mio ruolo? Salvare o consolare? Guarire corpi o illudere anime? Vorrei piangere, ma non ci riesco.”
Queste le parole, delicate e pesanti a un tempo, di una dottoressa al telefono, un paio di giorni fa.
Più di vent’anni di carriera, abitudine ai turni stressanti dell’ospedale, esperienza in luoghi critici del continente africano, abitudine alla sofferenza, abitudine alla morte. Nessuna scuola però, nessun tirocinio ti prepara a una cosa del genere.
In psicologia si definisce burnout; letteralmente significa “consumato/bruciato”, per esteso, “esaurito”. Può colpire ovviamente chiunque, ma in particolare lo si riferisce alle condizioni di particolare stress, fisico e mentale, degli operatori in campo medico. Oggi, come non mai.
Ora pensa a un qualche cosa che ti molto familiare, che maneggi usualmente e che ha bisogno di ricarica. Pensa al tuo smartphone. Pensa al simbolino a forma di pila che sinistramente diventa rosso e avverte che il dispositivo si spegnerà a breve; pensa a quando ti notifica che la memoria è esaurita, e che devi liberare spazio se vuoi continuare a usarlo.
Pensa anche alla tua auto. Sei ancora distante dalla meta e stai finendo la benzina. È bella, potente, nuova, ma senza benzina, stop, si ferma e diventa solo un
elegante ammasso di lamiera.
È una questione che potremmo definire “tecnica”, nella quale la volontà non gioca un ruolo ben preciso.
Il corpo e la mente si esauriscono, si scaricano. Succede quando le fasi di utilizzo superano quelle di ricarica.
A differenza però dello smartphone e dell’auto, che puoi tranquillamente ricaricare anche dopo che si sono spenti senza altro disguido che una passeggera seccatura, l’essere umano ha tempi decisamente più ristretti per poter correre ai ripari.
Gli operatori sanitari, medici, infermieri, personale OSS, psicologi, così come tutti coloro che per professione hanno a che vedere con il prossimo, con la sua salute, con le sue fragilità, sono i più soggetti a “consumo”, a Burnout appunto.
È assolutamente necessario quindi riuscire a ritagliarsi degli spazi di “ricarica”, luoghi, tanto fisici che mentali, lontani dal ruolo professionale. È importantissimo, in una parola, staccare … per poter riattaccare:
- Spazio/luogo “pasto”, seguendo la consuetudine di un rituale quale quello dell’apparecchiare, del rimanere seduti, del distrarsi anche attraverso il cibo, del conversare con qualcuno, familiare o collega; per quanto possibile dunque, evitare il tramezzino della macchinetta, trangugiato in quattro bocconi mal masticati, così come il salto del pasto o l’eccesso di caffè, magari seguito da sigaretta.
- Spazio/luogo “sonno”, da gestire anch’esso possibilmente con ritualità, ovvero indossando il pigiama (o quello che vi pare, purché sia ciò con cui di solito andate a dormire), le ciabatte, lavandosi i denti, ficcandosi sotto le coperte con la luce spenta. Banale? Raccomandazione scontata? No, non è così, e lo sappiamo tutti benissimo; altrimenti non avrebbe senso il continuo ribadire le modalità di lavaggio mani …
- Spazio/luogo del “distacco”, ove evitare il più possibile l’argomento. Come? Non navigando in rete alla ricerca di nuove e meno nuove informazioni, non ascoltando trasmissioni televisive in tema, non intrattenendosi a parlarne con altri, familiari ed estranei. Esistono la musica, i film, i buoni libri, e anche i soffitti da contemplare alla ricerca di nulla, fino a perdervisi e addormentarsi.
- Spazio/luogo “famiglia”. C’è chi ha scelto volontariamente l’isolamento, c’è chi invece riesce a tornare a casa. La tecnologia si scopre oggi ancora più preziosa per tenerci uniti. È molto importante, anche attraverso WhatsApp o Skype, entrare nella dimensione “famiglia”, essere padre, madre, figli, parlare di quotidianità.
- Spazio/luogo “amore”. C’è sempre un momento per fare l’amore, e se non è possibile oggi lo si può ipotecare attraverso un semplice “Ti amo”, nella certezza che l’attesa lo renderà ancora più bello e intenso domani.Di fronte a una situazione che si distacca così pesantemente dalla normalità, ai soliti fattori di esaurimento lavorativo si aggiungono l’intensificarsi della fatica portata da turni massacranti e un forte senso d’impotenza, di impossibilità ad agire, addirittura d’inutilità.“Non voglio sentire la definizione ‘eroi’, e
neppure ‘angeli’. Non siamo né eroi né
angeli. Siamo solo persone che svolgono il
loro lavoro; siamo semplicemente umani,
terribilmente umani. Il fallimento fa parte di quella porzione d’incognita che chiamiamo rischio. Difficilissimo da accettare perché nel mio lavoro ‘fallimento’ spesso coincide con morte, sempre con sofferenza. Gli eroi e gli angeli invece non falliscono.”L’altissimo numero di vittime contato in queste settimane in tutti gli ospedali, pone il personale sanitario di fronte a una situazione assolutamente anomala, inimmaginabile in contesti sociali quali il nostro.Stress fisico, ma soprattutto stress emotivo altissimo. I compiti non hanno più limiti e confini entro i quali esaurirsi. Bisogna andare oltre, sostituirsi agli affetti, alla famiglia, che non possono essere presenti; bisogna sapersi spogliare del ruolo, abbandonare il distacco, con una mano curare e con l’altra donare una carezza.Alcuni dicono che la complessa vestizione che li maschera fino a renderli irriconoscibili, fino addirittura a rendere necessario scrivere a pennarello il loro nome sulla visiera, in realtà aiuta a nascondere anche le lacrime e i tremori.
Vorrei allora concludere chiedendo uno sforzo a tutti noi. Accogliamo e rispettiamo la richiesta di quella dottoressa, rendiamoci conto che non è necessario essere eroi o angeli per essere preziosi, perché in realtà basta essere uomini, con tutti i nostri pregi, talenti, ma anche fragilità.
È questa una lotta comune. Tutti abbiamo un ruolo da giocare, tutti siamo pedine insostituibili e preziose.
Quello di un medico è di essere in prima linea per strappare alla morte, ma anche purtroppo talvolta di cedere a essa nella consapevolezza di aver fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità;
il mio è quello di dare sostegno e sollievo alla mente;
il tuo è quello di rimanere a casa per evitare di ammalarti, per evitare di diffondere il contagio.
A breve tornerà il tempo del sole, delle passeggiate, del vento che fa strizzare gli occhi.
Buon vento.
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online