Oggi parliamo di bambini. Non in un modo usuale, non con le sfumature di ironia che mi sono solite.
Voglio parlarvi di bambini; lo farò anche in ragione del mio ruolo di psicologo, ma soprattutto onorando il mio essere semplicemente uomo.
Non voglio che sia una semplice lettura. Non è il mio scopo.
Vorrei invece che riusciste a leggere con gli occhi chiusi, e se non è possibile farlo con quelli fisici, chiudeteli mentalmente, proiettandoli altrove, in luoghi inaccessibili persino alla fantasia.
Ora pensate a un bambino di otto anni. Puoi essere anche tu quel bambino; è un dato di fatto, inconfutabile, che lo sei stato e che quel bambino ti è rimasto dentro, e ci resterà per sempre.
Otto anni di vita. Solo otto, oppure già otto?
È chiaro, a otto anni si è dei bambini; quindi è corretto dire “ha solo otto anni”. Essere bambini non è una condizione indotta dall’ambiente, dal tempo, dal luogo, dalla cultura. È una condizione fisiologica, strettamente connessa al ciclo di vita umano. È una condizione fisica, ma anche parallelamente psichica, dell’essere, del pensare, del ragionare. Determinati atteggiamenti sono semplicemente l’essenza dell’essere bambini: giocare, piangere, cercare protezione, disobbedire, sognare. È come per un cucciolo di gatto: ovunque si trovi, sopra il divano del salotto oppure dietro a un bidone dell’immondizia per strada, giocherà se vede una pallina o un filo, anche se ha fame, freddo, anche se è solo.
Ha già otto anni. Anche quest’affermazione è vera.
Per capirlo devi fare appello a quel bambino che sei stato, richiamarlo alla memoria esattamente così com’era. Non c’è da stupirsi se la percezione di quel tempo, il ricordo a essa connesso, non sono molto dissimili da quelli di tempi molto più recenti, di quando avevi vent’anni, o anche semplicemente l’anno scorso. E il quadro tanto netto di questo spaccato di vita, è tale indipendentemente dalla tua età anagrafica effettiva.
Ciò accade semplicemente perché a otto anni un bambino possiede un bagaglio emotivo e di esperienze che non lo rende tanto dissimile da un adulto. Sarebbe più corretto dire che è un piccolo adulto piuttosto che un neonato cresciuto.
A otto anni si sanno fare praticamente tutte le cose che servono per vivere: camminare, vestirsi, lavarsi, leggere, scrivere, contare; si ha un vocabolario che, escludendo esigenze di vita specifiche e particolari, sarebbe sostanzialmente completo. In più, a otto anni si ha la capacità di distinguere, il bene dal male, ciò che piace da ciò che non piace, il giusto dall’ingiusto. Si hanno gusti personali. Si prendono decisioni. Ci si innamora. Si sceglie che cosa fare “da grandi”. Si cambia idea.
Nessuno stupore dunque che i nostri ricordi siano così evidenti e pregnanti.
Ma anche se lo vogliamo vedere dall’esterno, solo con l’occhio di chi non perde tempo a guardarsi dietro e dentro, vedremo che a quel bambino di otto anni chiediamo comportamenti adulti: responsabilità nello studio, nel rispetto per i superiori, nella gestione di se stesso, nell’organizzazione del suo tempo, nella coscienza delle proprie azioni.
Un bambino di otto anni possiede tutto ciò che è necessario per essere un uomo o una donna.
Questi otto anni di vita sono importantissimi, perché è proprio durante quelli che si prepara la valigia per quel viaggio che si chiama vita.
Non tutti i bambini ce l’hanno uguale, ugualmente bella, ricca, facile, non tutti ci mettono dentro le stesse cose; alcuni la riempiono pure di cose sbagliate, che nel corso del loro cammino cambieranno.
Insomma, quello che voglio dire è che il primo decennio della vita di ciascun essere umano non si cancella, ed è da quello che, nel bene e nel male, nel successo e nel fallimento, nella fortuna e nella sfiga più nera, la vita trarrà spunto, obiettivi e insegnamento.
E ora chiudete gli occhi. Nella realtà però questa volta. Aspettate … chiudeteli per un minuto, cercando di cancellare ogni ricordo bello e costruttivo. Poi riapriteli e continuate a leggere.
Eccoci di nuovo qui.
Ci sono bambini nel mondo che otto anni fa sono nati nella guerra, e che non hanno conosciuto altro.
Bambini per i quali il fischio delle bombe è … normale, come per i nostri bambini lo è il suono del cellulare di mamma o papà.
Bambini per i quali camminare sulle macerie è … normale, come per i nostri percorrere le strisce pedonali.
Bambini per i quali schivare un missile è … normale, come per i nostri fare attenzione alle auto.
Bambini che non sono mai andati a scuola, che non si sono mai svegliati con una sveglia, che non hanno mai visto un nonno arrivare con un pacco infiocchettato e il sorriso, che non hanno mai rubato una caramella, che non l’hanno mai mangiata, quella caramella, che non sono mai stati sotto al piumone quando hanno avuto la febbre, che non si sono mai iscritti a calcio, a danza o a un corso di judo.
Bambini nati in un campo profughi, convinti che le case siano tende, blu o bianche, ma di stoffa e plastica.
Otto anni di vita fatti solo di grigio, rumore forte, polvere, aria asfittica; un grigio colorato a sprazzi di rosso.
Bambini ai quali è inibita persino la facoltà di avere paura. Questo è ciò che, paradossalmente, mi fa più male: l’orrore, la morte, percepiti come normali, come unica realtà.
Non ho alcuna intenzione di addentrarmi in analisi e considerazioni sul perché, il per come, il per chi, se di chi sia la colpa, la responsabilità, eccetera eccetera.
Mi permetto solo di guardare a questa realtà, meno distante da noi di quanto lo siano molti luoghi in cui prenotiamo le vacanze, da psicologo, e da padre.
E allora mi chiedo: se questa guerra finisse anche domani mattina, e d’incanto tutto tornasse a funzionare, come in una favola, scuole, ospedali, case, cosa farebbero questi bambini?
Su quale mezzo potrebbero proseguire il cammino? Da dove dovrebbero trarre quel sottofondo su cui fondare la propria vita?
Sarebbe come se, quando io avevo otto anni, da Tor Lupara mi avessero spedito su Marte,
dicendomi «Arrangiati!»
La mente di un uomo si plasma su ciò che vede, tocca, ascolta; cresce costruendo immagini sulla realtà che lo circonda. Mi domando dunque, ammesso che riescano a sopravvivere, che adulti potranno essere questi bambini, e cosa potranno raccontare ai loro bambini.
Abbiamo perso intere generazioni nel mondo.
Ieri sera ho visto alla tv uno dei tanti documentari sulla seconda guerra mondiale. Una storia tristemente nota, immagini viste molte volte, e che mai cessano di colpire come fosse la prima.
E ancora, da psicologo, da padre e semplicemente da uomo, mi sono chiesto come, dopo tutto questo, sia stato permesso che i bambini delle generazioni successive, compresa la mia, giocassero ancora alla guerra.
Un’ultima cosa prima di chiudere questo articolo dal tono non consueto per la mia rubrica settimanale, ma che sentivo profondamente di dover scrivere.
Tutti i bambini del mondo, quando dai loro un foglio e delle matite, disegnano. Per la psicologia questi disegni sono molto importanti, non solo per ciò che vi viene rappresentato, ma anche per la scelta dei colori, l’intensità dei tratti, la quantità di spazio utilizzato.
Ecco allora i disegni di alcuni bambini siriani.
Ne ho scelti solo tredici, e ognuno di essi è un baratro grande come quello lasciato da una bomba. Sono stati fatti da bambini che non hanno mai vissuto altro, bambini nati durante la guerra, dal 2011. Tutti, tranne il primo. È di una bimba che ha avuto la fortuna di essere nata prima, di aver visto un’altalena, un prato verde e le rondini nel cielo. È spietato il modo in cui separa queste due realtà. Il fallimento dell’umanità riflesso nel disegno di un bambino che tiene un palloncino.
Non fatevi ingannare dalla sequenza temporale. La bimba è siriana, scrive in arabo, e quindi il foglio lo riempie in direzione opposta a come faremmo noi: il bambino con il palloncino è lo stesso. Nella seconda scena, dove ai suoi piedi c’è solo sangue, il bambino muore.
Buon vento.
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (Roma), Fonte Nuova (Roma) e Online