Le parolacce, come dice una mia cara amica, sono come i tacchi a spillo: o li sai portare o è meglio che lasci perdere.
Che cos’è una parolaccia? A cosa serve? È giusto travestirla da “parola”?
C’è stato un tempo, non molto lontano e noto alla maggior parte di voi che leggete, in cui la parolaccia aveva quasi esclusivamente la forma vocale.
La faccio troppo complessa? Ok, avete ragione. Prima che tutti ci mettessimo a scrivere come forsennati sui social, le parolacce venivano solo dette a voce. Ecco, ora è chiaro.
Lo scritto non le prevedeva quasi mai, a meno che non si trattasse di un testo volutamente provocatorio. Con una sequela ossessiva di “parolacce” iniziava ad esempio l’arcinoto Porci con le ali, libro scandalo della metà anni settanta, esposto con orgoglio sul ripiano più gettonato della libreria da parte di rivoluzionari, radical chic, hippie, letto avidamente ma di nascosto dai benpensanti, e imboscato nel ripiano in alto, fra l’enciclopedia del cucito e la raccolta rilegata del manuale delle giovani marmotte.
Se dunque scritta la parolaccia era appannaggio di pochi eletti, a voce ha sempre riscosso un discreto successo un po’ presso tutti, dal classico e intramontabile burino con la canottiera arrotolata sulla panza – macchiata di sugo è meglio – alla signora in elegante completo Chanel.
La differenza sostanziale è il modo di dirla, l’estensione vocale, il coinvolgimento emotivo.
Negli ambienti raffinati fioccavano e ancora resistono quindi, sapientemente conditi da boccucce a culo di gallina (no, dico! A proposito …), e faccette furbette:
PorcH… PU … (breve pausa) …zzola!
Ma che cAAAA … ppero! (altre varianti culinarie prevedono il “cavolo”)
MEEEEErrrrr … (lunga pausa, studiata) … coledì!
Ragazzi! La smettete di fare ca … sotto?
È inutile, la classe non è acqua! Il vero signore, ma soprattutto la vera signora, li riconosci dalla fantasia delle sostituzioni di sillabe.
Eppure, no. Lasciatemelo dire. A me questa forma ripulita e infiocchettata di parolaccia non piace.
La parolaccia ha un qualche cosa di sacro e inviolabile. Puoi cambiare inflessione, trovando quella che ti è più consona, puoi plasmarla sui vari dialetti, puoi – anzi è consigliabile – accompagnarla con gestualità eloquente, ma non la puoi variare nella sua sacra struttura! Eh no!
Le puzzole, i cavoli, i capperi e i mercoledì non c’entrano nulla con la parolaccia. Servono solo ad annacquarla, con un risultato di pessimo gusto, come un buon vino allungato con l’acqua.
È un sacrilegio, e insieme un’ammissione d’incapacità. Più o meno è come mettere le mutande al David di Michelangelo o il reggiseno alla Psiche di Canova. Eppure è stato fatto pure questo! Un tipo, un pittore fallito, divenne appunto famoso per essere stato assunto dagli alti ranghi ecclesiastici, per dipingere mutande e drappi sugli zebedei dei vari affreschi. Il Braghettone venne chiamato. Non chiedetemi di più; non sono uno storico dell’arte, ma il risultato di quegli straccetti spiaccicati sui sederi e sul pacco di santi e dannati del Giudizio universale, è semplicemente patetico.
Torniamo però alla nostra parolaccia.
Essa è tale in quanto attinge dalla sfera sessuale. E questo la dice lunga sul rapporto malato che l’uomo ha con il sesso, e che persiste, difficilissimo da smantellare. Sono gli apparati riproduttivi a fornire la maggiore ispirazione; quello maschile, fra l’altro, in netto vantaggio sul femminile.
Il sesso non si mostra, e allora arriva il Braghettone; ma se non può essere mostrato, allora neppure deve essere nominato; se non deve essere né mostrato né nominato, significa che è sporco, brutto, risibile, vergognoso. Ed ecco che diventa “parolaccia”.
Essa invece, spogliata totalmente del suo significato etimologico, rappresenta una vera e propria valvola di sfogo, un’esplosione di sincerità. Deve nascere spontanea, ed esibita così com’è, altro che storpiamenti … ad minchiam.
Vi faccio un esempio:
vi state infilando sotto la doccia e suona il citofono. Vi buttate addosso l’accappatoio e andate a rispondere. Nessuno! Tornate alla vostra doccia, c’infilate un piede ed ecco ancora il citofono. Vi ricoprite, lasciate strascichi di acqua per tutto il corridoio. Nessuno, pure questa volta. Scuotete il capo, perché siete persone sagge e dotate di grande autocontrollo, e tornate in bagno. Infilate sotto la doccio l’intera gamba, ed ecco di nuovo il gracchiare del citofono.
Cosa dite a questo punto?
Vi avverto. Se qualcuno fra di voi ha pensato di esclamare “Ma chissà chi è! Forse qualcuno che non osa comunicare, poveretto! Ora mi rivesto e scendo a vedere”, fissi un appuntamento dal sottoscritto immediatamente, anzi, si rechi di persona in studio avanzando il carattere di estrema urgenza. E se per caso si trova un po’ fuorimano rispetto a Monterotondo, si cerchi un bravo psicologo vicino a casa!
No, la reazione normale si estende in un’ampia gamma che parte dal “mavaffanculo” e arriva al “echeca …”, volutamente uniti in una parola unica per emulare in modo realistico l’emissione di voce senza inutili pause, caratteristica di una buona pronuncia della parolaccia.
Ora, cos’è successo con l’avvento dell’uso massiccio del web e dei social? Che a scrivere non sono più solo gli scrittori e i giornalisti, ma tutti, ansiosi di sventolare al mondo le proprie idee e problemi. Proprio tutti, dal burino macchiato di sugo alla signora in Chanel.
Ma cosa succede quando bisogna tradurre in lettere scritte le “parolacce”?
Le dita si bloccano sulla tastiera, le unghie arrossiscono per la vergogna, gli occhi rifiutano di guardare lo schermo. Oh, sì! È difficile da scrivere la parolaccia, ancor di più che pronunciarla.
Succede così di essere posseduti dal Braghettone che alberga in noi, da secoli, il quale ci indica quali tasti pigiare per rendere accettabile la parolaccia.
E così assistiamo a un abuso di @, di #, di numeri in sostituzione di lettere (un classico è il 4 per la z), di X.
Allora ti svelo una cosa.
La parolaccia non l’ha ordinata il dottore! Nessuno ti obbliga a usarla, e il farlo non ti rende né più trasgressivo, né più simpatico, né più sciolto. Nel vocabolario ci sono tante parole con le quali ti senti più a tuo agio e fai una figura migliore. Usale!
Altrimenti sii sincero, autentico; lascia perdere chioccioline e hastag e abbi il coraggio di mettercele, quelle “Z”!
Insomma, se le parolacce non si studiano a tavolino, nascono da sole, dal nulla, fuori controllo. Questa è la loro funzione, sacrosanta, catartica, se non abusata e mal usata. Tutto il resto, le chioccioline, le X, i cavoli e le puzzole, sono solo atteggiamenti bacchettoni, forzature per apparire altri da quello che si è.
E a questo punto, scusate ma ci vuole, almeno per coerenza intellettuale: Echecazzo!
Perdonatemi, oggi mi andava così, di scherzare. Sì, ma se leggete attentamente, scoprirete un fondo di verità.
Buon vento.
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online