Come tutto ciò che finisce con –algia, fa male.
Pubalgia, mialgia, cefalgia, nevralgia, sciatalgia …
Nostalgia!
La nost-algia, ovvero il dolore del ritorno.
In fondo non c’è nulla di sbagliato nel ritorno, fisico o anche mentale. Ma allora perché fa male, ma soprattutto quando fa male?
La risposta al primo quesito è: perché lo si idealizza;
al secondo invece: quando il “ritorno” comporta il desiderio del “non ritorno”.
Il ritorno, psicologicamente parlando, è ricordo.
Nel dizionario medico _algia è usato come suffisso a indicare un dolore localizzato: a un muscolo, a un nervo, alla testa, a una parte circoscritta. Le cause sono di diversa natura: traumatiche, infettive, tossiche. Lo scopo invece è molto chiaro: avvertirci, trasmetterci il segnale che qualcosa non va.
Il ricordo, se buono, non fa male, esattamente come non provoca dolore un dente o una gamba, neppure nel pensiero della loro esistenza.
Per spiegarmi, visto che non mi piace esprimermi per enigmi e neppure cercare concetti troppo complessi, se tu pensi a un tuo qualsiasi organo, ne avverti la presenza, la consistenza, ne assumi il controllo, ne disegni mentalmente l’aspetto, oppure te lo immagini se si tratta di uno interno, ma non provi fastidio alcuno, se non è malato. Questa percezione buona avviene persino a carico di parti amputate, di cui però tanto la mente che il corpo conservano memoria.
Come succede allora che il ricordo/ritorno diventi doloroso?
Innanzitutto – e perdonatemi per questa digressione un po’ accademica che non mi è consueta – dobbiamo precisare che si tratta di un termine molto recente. Oddio, recente in rapporto all’immensità della storia perché stiamo parlando della fine del 1600. Fu un medico francese a coniarlo, appena diciottenne, Johannes Hofer, per definire nella sua tesi di laurea il sentimento di angoscia che si poteva talvolta notare tra gli esiliati lontani dalla patria.
Recente ovviamente è solo la definizione, non la sensazione!
I francesi l’hanno chiamata mal du pays, i tedeschi Heimweh, gli inglesi homesickness, i portoghesi saudade: tutti termini che mettono in evidenza il desiderio ossessivo di fare ritorno in patria, a casa propria.
Una definizione recente accentua l’idealizzazione del passato: la nostalgia è una preferenza verso luoghi, oggetti, persone, che erano comuni quando si era giovani o adolescenti, talvolta addirittura appartenenti a un mondo antecedente la nascita ma comunque legato al contesto familiare (Holbrook e Schindler, 1991).
Ultima nota “colta” – lo giuro – ma doverosa, è quella su Freud, che parlò del desiderio di tornare a una casa nascosta, ai monumenti inventati dei nostri viaggi attraverso ricordi quasi dimenticati, che appartengono a un altro tempo, elaborati e migliorati dalle nostre fantasie attuali. Secondo il padre della psicanalisi, la nostalgia si collega alla madre, innescando un meccanismo di libido repressa e insoddisfatta che porta alla frustrazione e allo sviluppo della paura attraverso l’angoscia della perdita dell’infanzia.
In sintesi, la nostalgia attraversa i tempi assieme alla storia della civiltà: ne parla Omero descrivendo un Ulisse nostalgico di Itaca sull’isola incantata di Calipso, si codifica attraverso l’osservazione della condizione di esiliato e dei soldati lontani dalla patria, si trasforma in canti e romanzi nei periodi storici, anche recenti, di massiccia immigrazione.
Ovviamente la nostalgia non può essere definita una malattia in senso stretto, ma attenzione a non farla incancrenire!
Tutti abbiamo un passato, tutti abbiamo ricordi, tutti ci serviamo della memoria per costruire noi stessi.
La vita però è il presente, e la sua proiezione nel futuro. Funziona più o meno come per la casa: abbiamo delle fondamenta, essenziali per la sua stabilità, ma dove mangiamo, dormiamo, ridiamo, piangiamo, e anche infine moriamo, è nella sua porzione emersa.
Voglio ora farvi pensare a una convinzione molto comune, universalmente accettata come incontestabile.
Quante volte avete sentito dire che i cani, i nostri cani con cui condividiamo il sentimento della famiglia, sono di memoria corta?
Quante volte vi siete chiesti se per caso conservano ricordo del canile dal quale provengono, della madre naturale che li ha accuditi, oppure di un precedente padrone?
Ebbene, in modo molto facile e comodo, rispondiamo di no.
Ciò deriva esclusivamente dall’osservazione della loro attuale felicità. E che diamine! Sono felici, e quindi, secondo il nostro limite intellettuale, ciò è inconciliabile con il ricordo.
Ebbene, secondo gli studiosi, ma anche per semplice logica, i nostri cani sono in grado perfettamente di ricordare luoghi, volti, musi, odori, voci. Nella loro saggezza istintiva, sanno però godere appieno del presente, senza metterlo in paragone con una dimensione che ha naturalmente cessato di essere.
La bellezza della carezza di oggi è la cosa più importante del mondo. Nessun cane mai perderà tempo a pensare che “le carezze della mamma erano meglio”, che “il giochino dell’infanzia era più gommoso”, che il prato su cui correva da cucciolo era più verde dell’aiuola sotto casa . Nessun cane, per quanto possa aver avuto un passato felice, mai lo rimpiangerà; se invece è stato infelice, saprà annegarlo nella gioia del presente. Il cane non dimentica, semplicemente non gli frega un accidente di ricordare, perché non gli serve farlo; al limite ne ricava insegnamento ed esperienza utile a metterlo in guardia.
La nostalgia, il dolore del ritorno, che genera un sentimento angoscioso, è una prerogativa umana. Una “paturnia” potremmo definirla! Guarda caso lo stesso dizionario Treccani definisce la paturnia “Stato d’animo malinconico”.
Vediamo ora di approfondire osservando due opere di Magritte, un pittore che egregiamente trasforma in note di colore la psicologia.
La prima fa esattamente al caso nostro perché s’intitola proprio Nostalgia.
Ci sono un leone e un uomo/angelo. Il luogo è anonimo, con un “di qua”, dove sosta il leone, rilassato, con lo sguardo fiero e pacifico all’osservatore, e un “di là”, che si snoda oltre una balconata alla quale si affaccia l’uomo. Costui è abbigliato come un uomo comune, decisamente “umano”; sembra un impiegato, o un commesso viaggiatore, o ancora un bancario. Insomma, uno che la sera fa ritorno a casa dopo una giornata di lavoro, un “borghese”, al quale non manca nulla di essenziale. Facilmente s’immagina che abbia una famiglia, un salotto e la cena in tavola. Il suo sguardo è però oltre quel limite fisico, oltre lo stesso quadro. È un volto vuoto, senza occhi né lineamenti, a differenza del leone che supplisce a questa mancanza con uno sguardo e un atteggiamento presenti e dettagliati, decisamente umano. Quello che però più lo caratterizza sono le due lunghe ali nere. Due ali che si fondono con l’abito, divenendone parte integrante. E allora? Cosa significa?
Vorrebbe volare via, oltre il limite della tela, in quel nulla rappresentato dal ricordo. Un volo nero, cupo, nostalgico appunto, il volo della morte. C’è pure un lampione, che non illumina nulla. Perché? Perché il presente non ha bisogno di luce artificiale, e il passato neppure, non esistendo più se non nel desiderio.
Se si voltasse probabilmente il suo volto tornerebbe a essere tale; avrebbe dei lineamenti, un naso, una bocca, degli occhi; forse sorriderebbe, e probabilmente quelle orribili ali nere di morte cadrebbero.
Il presente è coraggio e maestosità (il leone), è vita; il rimpianto del passato invece, oblio e morte.
La seconda opera si chiama Memoria.
Fortemente impattante e inquietante, essa è figurata in una testa di statua antica, con gli occhi chiusi. Cosa assai strana questa per una statua, soprattutto classica, dove le orbite scolpite nel marmo erano destinate a ospitare paste vitree colorate e smalti.
Ciò che però più inquieta è la chiazza di sangue che scende dalla tempia e scende fino alla guancia.
La tempia, come sede della memoria, che produce un dolore che diventa lacrima e attraversa il viso.
È una testa mozzata, senza il corpo, quindi inerte, senza possibilità di movimento.
Intorno vi sono alcuni elementi: sullo sfondo, una tenda che pare un sipario teatrale, che occulta la metà di un orizzonte ove tramonta sul mare un sole infuocato, e in primo piano, un nido con tre uova.
L’allegoria è piuttosto chiara: passato e futuro, un passato che provoca dolore e un futuro incerto ma carico di speranza.
Magritte dipinse questo stesso soggetto con differenti sfondi (un muro, altre tende, cieli), e sostituendo al nido dei campanelli. Se però è chiaro l’intento univoco dello sfondo, più difficile è dare un significato ai campanellini, che secondo alcuni critici rappresentano l’infanzia.
Nostalgia e memoria; la prima si nutre della seconda, come un mostro mitologico.
Con la sua straordinaria capacità di sondare l’animo umano attraverso le immagini, il pittore ci comunica dunque quanto percolo vi sia nell’idealizzare il passato.
Quando la nostalgia venne codificata e descritta dal punto di vista clinico, si ipotizzò che potesse addirittura condurre alla morte (ciò anche in ragione dell’alto numero di sucidi fra i soldati).
Senza tuttavia arrivare a questa estremizzazione, possiamo ragionevolmente affermare che essa uccide il godimento del presente, per giunta con note decisamente infantili, ovvero attraverso una malcelata incapacità a crescere.
Il presente, per bello o brutto che sia, è l’unico tempo che possiedi. Il problema della nostalgia è che ti impedisce di vederne la bellezza oppure di agire per realizzarla.
La nostalgia è dunque un limite, e come tale, un ostacolo.
Bellissima la definizione dello scrittore brasiliano João Guimarães Rosa: “Ogni nostalgia è una specie di vecchiaia”.
Per tornare ai nostri amici cani, ecco scoperto il perché essi in fondo non invecchiano mai!
Come possiamo invece noi spazzare via questa vecchiaia forzata che puzza di muffa e di chiuso?
Ovviamente attraverso un metodo che abbiamo consolidato: un bellissimo soffio di vento.
Buon vento dunque, e siate giovani!
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online