Un argomento su cui è impossibile avere torto: la morte
È proprio così; la nostra unica certezza, l’unica cosa che sappiamo che accadrà, prima o dopo, in un modo o nell’altro, a noi stessi e a chiunque, amico, nemico, intimo o sconosciuto, che è sempre accaduta, che accadrà persino a chi ancora non è nato: la morte.
L’unica certezza eppure la più sconosciuta, la grande incognita. Talmente sconosciuta da contraddire persino se stessa e quel carattere d’incrollabile certezza che le riconosciamo: diciamo infatti che il suo arrivo è sicuro perché fino a ora è stato così, e di questo facciamo regola per il futuro pur non potendo escludere a priori il contrario.
Talmente sconosciuta che per digerirla dobbiamo ammantarla di ipotesi e speranze.
Il rapporto con la morte, la nostra sicuramente ma ancor più di coloro che amiamo, ci pone di fronte a un conflitto che non può trovare soluzione se non nella fede o nella scienza.
Quel calore che emanava il suo corpo, l’odore particolare che ne è rimasto (o comunque vogliamo continuare a sentire) sui cuscini, quelle mani che hanno accarezzato, battuto pugni sul tavolo, lavato, cucinato, scritto, strappato, dato sberle e preparato camomille, che hanno retto stanche un volante di notte oppure hanno tradito palpando un altro corpo, quelle mani che sono diventate rugose oppure non hanno goduto del destino di diventarlo; quelle mani non ci sono più. Non le puoi toccare, non ti possono toccare, e mai più questo accadrà.
Quella voce; non la udirai più e mai più ti risponderà.
Niente più discussioni, telefonate, risate.
Niente più abiti dismessi, usati, da dare via, oppure nuovi, scelti con cura.
Non più quei cibi preferiti su ogni altro, che facevano aprire il sorriso e stimolare papille gustative, non più quella particolare musica. Le abitudini, le consuetudini, anche quelle che ti facevano venire il nervoso, anzi, soprattutto quelle: il tappino del dentifricio mai avvitato, quel russare nella notte, quel colore orripilante che si ostinava a indossare.
E poi le parole, il ricordo di esse, dolci come miele e taglienti come lame.
Come accettare che questo immenso tutto non sia più? Dove sono finiti tutti quegli attimi che in uno soltanto si sono dissolti?
La morte. Già, la morte è un qualcosa del quale non possiamo fare esperimento diretto ma di cui portiamo l’enorme bagaglio sulle spalle, fatto di incognite da riempire.
Possiamo appellarci alla fede, oppure brandire l’arma della razionalità ma la faccenda non si sbroglia comunque. Cosa c’è oltre?
La nostra mente ha bisogno di collocare ciò che transita attraverso la morte in un panorama. È un bisogno autentico, forse non primordiale e istintivo, ma cresciuto assieme al nostro desiderio di conoscere e sapere.
In ogni caso c’è un’enorme contraddizione nel nostro rapporto con la morte: la immaginiamo come qualcosa che sia comunque migliore rispetto alla vita reale, e questo tanto che siamo credenti che atei, eppure la temiamo.
Relativamente a noi stessi da una parte temiamo il dolore, la sofferenza fisica, ma soprattutto i problemi che possiamo lasciare, le cose irrisolte; abbiamo l’assurda paura di portarci dietro rimpianti, rancori, debolezze.
Dall’altra la immaginiamo come il nostro momento di maggior gloria, il trionfo mai realizzato, l’atteso momento di autentico e indiscusso protagonismo.
Fantastichiamo sulla nostra (è una cosa che facciamo tutti!) ma non riusciamo neppure a pensare a quella di coloro che amiamo.
È la morte altrui che ci terrorizza, perché essa incarna la mancanza, la privazione di ciò che ci fa stare bene. Ed ecco subentrare l’attesa. La morte è un passaggio, come una sorta di ponte; anche quando il cammino lo facciamo insieme, su quel ponte dobbiamo passare uno alla volta, per cui è inevitabile che per qualche istante siamo sulle due sponde opposte, sempre uniti ma al contempo separati. È una condizione momentanea che scomparirà nel momento in cui anche noi attraverseremo. Ecco l’attesa, che ci mantiene vivi e ci permette di superare anche il dolore più lacerante.
Soffrire è giusto; il più sacrosanto dei diritti. Non lasciate che nessuno vi dica che non dovete!
Di dolore non si muore ma si guarisce. Il pianto è come la crosta che si forma sulle ferite per fare in modo che il nuovo tessuto si generi al riparo. Il pianto è sincero; il pianto è mille e più parole che diventano improvvisamente inutili.
Il pianto non è debolezza, è forza!
Del resto la stessa parola “lutto” viene dal latino “lugere”, “piangere”.
Sicuramente non esiste una ricetta che funzioni in modo univoco e universale. Ogni morte ha il suo bagaglio di vita a cui riferirsi e su cui elaborare le proprie reazioni.
- Vi sono morti che necessariamente devono fermarsi nel nostro cuore e accucciarvici come cani fedeli: sono le morti inevitabili, quelle di fronte a cui la vita ci mette se tutto si svolge, come si suol dire, “secondo natura”. La morte dei genitori quando avviene a tarda età, la morte dei nostri animali, il cui tempo corre estremamente più veloce del nostro.
Le lacrime in questo caso leniscono il dolore, del quale abbiamo quasi pudore, ma si accompagnano bene al sorriso e alla dolcezza del ricordo.
- Vi sono poi le morti che si gridano, che fanno spaccare i muri a pugni: sono le morti che arrivano quando secondo nessuna logica di vita dovrebbero arrivare, quelle dei giovani, dei compagni, dei figli. Le lacrime aiutano a lenire ma rischiano anche di rendere scivoloso il terreno sotto i nostri piedi, e di farci cadere. Sono queste le morti che necessitano di un ancora a cui aggrapparsi per restare in piedi. La natura ci fornisce di questo gancio virtuale ma spesso non ci è facile trovarlo e annaspiamo nel buio.
Con termine freddamente psicologico si parla di “elaborare il lutto”.
Lasciamo perdere le terminologie, che ne dici?
Credo che per te sarebbe molto più importante parlarmi di chi non c’è più, del tono della sua voce, della temperatura del suo corpo, delle parole che vi scambiavate. In fondo cos’altro significa elaborare il lutto se non superare l’insostenibilità del dolore e imparare a convivere con esso?
È un percorso naturale che però insieme possiamo rendere più fluido e leggero, accompagnando il dolore su di un alito di vento fino a trasformarlo in ricordo che riempie e arricchisce.
Buon vento!
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Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo, Fonte Nuova ed Online