Guendalina Middei, conosciuta anche come Professor nel suo libro “Innamorarsi di Anna Karenina il sabato sera” scrive: “Vi siete mai chiesti perché nella bibbia il primo compito che Dio assegnò ad Adamo fu di dare un nome alle cose? Io non so se voi siate credenti o no: ma in questo antico mito è racchiusa una grandissima verità. Vedete, Dio non appena ebbe creato l’uomo non gli diede il compito di coltivare la terra, di pregare o prendersi cura del bestiame, ma gli diede un compito ben più importante: dare un nome a tutti gli animali. Ma perché? Perché Adamo assegna un nome alle cose e quelle iniziano ad esistere nell’attimo stesso in cui gli da un nome. Dire è creare, questo lo avevano capito tutti i popoli antichi. Chi tra voi non ha mai sentito l’espressione «in principio fu il verbo?» Gli antichi aramaici invece dicevano Avrah KaDabra, io creo quello che dico. Nell’antica Grecia si credeva che un uomo potesse acquisire potere su un altro apprendendone il nome. Quando gli antichi romani volevano cancellare la memoria di una persona la prima cosa che facevano non era distruggerne le statue, le effigi, le opere da lui create, ma cancellarne il nome.
Ecco, vi siete mai chiesti perché qui sui social gli algoritmi sono programmati in modo tale da scattare quando vengono usate determinate parole? Perché se a una cosa non gli dai un nome, quella non esiste. I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo. Ed ecco perché i regimi di ogni secolo, in ogni tempo ed epoca, hanno maneggiato, rivoltato e tentato di togliere significato alle cose e di chiamarle con un altro nome. Incominciamo con il riappropriarci delle parole che vorrebbero sottrarci, con il chiamare le cose con il loro nome. E ricordatevi sempre: ciò che non si può dire è quasi sempre l’unica cosa degna di essere detta”.
Bisogna prestare molta attenzione alle parole perché hanno il potere di modificare la realtà. E nel mio lavoro questo lo tengo sempre a mente, d’altronde lo strumento più potente e prezioso dello psicologo è la parola. Ogni volta che le persone entrano nel mio studio di Monterotondo o vengono ricevuti online mi raccontano la loro vita, le loro difficoltà, i loro sogni, la loro realtà, le loro emozioni proprio attraverso le parole.
A volte le parole fanno miracoli
Abracadabra è stata molto utilizzata per aprire porte “chiuse” e si è pertanto caricata di un’energia collettiva atta ad attirare circostanze favorevoli, come se attraverso una parola si potesse trovare la forza di smuovere qualcosa di resistente ed irremovibile davanti a noi. Perlomeno così sembra. La formula magica “Abracadabra” deriva dall’aramaico Avrah KaDabra’, il cui significato è ‘Io creerò come parlo’ o dall’ebraico ha-bĕrakāh dabĕrāh ossia “pronunciare la benedizione”. La prima testimonianza la si trova, a quanto pare, nel Liber Medicinalis del medico Quintus Serenus Sammonicus, che formulò un amuleto contenente la formula magica scritta a forma di triangolo capovolto. Forse è anche a partire da ciò che l’umanità ha iniziato a dare alle parole un significato ancora più denso ed importante. Lo stesso Buddha disse che “le parole hanno il potere di distruggere e di creare. Quando le parole sono sincere e gentili possono cambiare il mondo”.
Ma, a parte la magia, negli anni ’70 dalle ricerche del matematico Richard Bandler e del linguista John Grinder nacque la PNL, che si occupa quindi di capire come le parole che pronunciamo, ma anche il tono e i gesti che adottiamo, influenzano il cervello. Partendo da questo presupposto, interviene per modificare eventuali “cattive abitudini” limitanti che ci impediscono di raggiungere i nostri obiettivi.
In tale ottica non è ciò che accade intorno a noi a condizionare le nostre emozioni, pensieri e via dicendo ma esattamente il contrario. Siamo noi a influenzare la realtà circostante. Quindi prendendo consapevolezza di questo processo, possiamo imparare a gestirlo anziché esserne vittime. Ecco perché, in teoria, è tanto importante scegliere le parole giuste, incoraggianti, potenzianti, evitando per esempio le negazioni come “non sono capace”, “non mi va mai bene niente”, “mai na gioia”.
“Le parole erano originariamente incantesimi, e la parola ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice un altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l’insegnante trasmette il suo sapere agli studenti, con le parole l’oratore trascina l’uditorio con sé e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano affetti e sono il mezzo generale con cui gli uomini si influenzano reciprocamente” dice Sigmund Freud.
A volte le parole non servono?
Tuttavia, soprattutto nelle relazioni consolidate, come ad esempio con amici, parenti o partner, spesso aleggia l’idea che, proprio in virtù del forte legame, ci si possa capire anche senza le parole, intuendo tutto da uno sguardo… Questo è uno dei cliché più diffusi della narrazione dell’amore romantico. Quello di due persone unite in un unico intramontabile idillio… La fantasia è che l’altro possa essere per noi un libro aperto o che, a sua volta, il partner possa intuire ciò che stiamo pensando o sentendo al di là di qualsiasi spiegazione. Si tratta di illusioni, troppo spesso alimentate da film e romanzi rosa. Ma che in realtà, paradossalmente, possono danneggiare la possibilità di instaurare relazioni intime soddisfacenti.
Forse questa verità farà male, ma conoscersi non è leggersi nella mente. Anche le persone che arrivano per la prima volta nel mio studio spesso portano l’aspettativa (o il timore) che io abbia la facoltà di comprendere ciò che avviene nella loro mente al di là di quello che mi comunicheranno a parole. Ma, ahimè, ti rivelo un’altra verità scomoda: non sono in grado di leggere nel pensiero.
Quindi una comunicazione empatica non ha nulla a che vedere col “leggere” nella mente dell’altra persona. Capirsi senza parole, dunque, è piuttosto lontano dalla realtà delle cose! Quella del conoscersi sia più una danza reciproca dove ognuno ha un suo spazio da giocare per aprirsi all’altro, ma anche per incuriosirsi e provare a comprenderlo. E’ per questo motivo che spesso quando il partner fa o dice qualcosa, che ci ferisce, invece di comunicarglielo esplicitamente, mettiamo il muso, smettiamo di parlare. E quando l’altro ci domanda spiegazioni, rispondiamo con un laconico “niente”… Oppure esplodiamo direttamente in un escalation di esasperazione rabbiosa, perché lui/lei non mostra di aver afferrato ciò, che a nostro parere, dovrebbe già aver capito! Questi atteggiamenti portano sempre ad una comunicazione inefficace. Se rimaniamo ancorati a questa aspettativa fusionale dell’amore romantico rischiamo di non riuscire ad apprezzare l’altro per come veramente è, ma di viverlo solo come un’estensione di noi stessi.
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Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM) e ONLINE