Immagini che concretizzano pensieri; parole che evocano esperienza.
La nostra capacità comunicativa è straordinaria. Certo, ci siamo abituati, e quindi neppure ci facciamo caso, però se ci soffermiamo un attimo a riflettere, a guardare attraverso un filo di primitivo stupore, gli strumenti comunicativi in nostro possesso rivelano tutta la loro potenza. Siamo in grado di comunicare anche le più personali, intime sensazioni, e così renderle condivisibili, “empatizzabili” (esiste questa espressione? Non importa; rende l’idea e quindi l’azzardo!). Lo strumento è semplice, e si introduce con un semplice … “come”. Attraverso il “come …”, io entro in te e tu entri in me, viviamo la medesima esperienza, o quanto meno riusciamo a pensarla, e quindi comprenderla.
Pensa a quando descriviamo un problema di vista:
– È come se fossi nella nebbia … – diciamo all’oculista, e l’immagine è chiara.
Oppure: come una ragnatela, come dei lampi, come dei moscerini, come se le scritte si sdoppiassero … O ancora un problema di udito: come un rombo, come nell’acqua, come ovatta, come un fischio …
E poi il gusto: come il limone, come il miele, come il veleno.
Gli odori: come mandorla amara, come viola, … e come un’infinita varietà di cattivi odori.
Le immagini parlano con estrema precisione, evocano la conoscenza di chi ascolta e producono empatia. Tutti abbiamo esperienza diretta di quei termini di paragone: la nebbia, il lampo, il gorgoglio dell’acqua, il dolce, il salato, il profumo.
E per il dolore?
Come funziona quando dobbiamo descrivere una sensazione dolorosa? Il “come” riesce ad afferrare la giusta metafora?
– … è come se qualcuno spingesse una lama e la rigirasse nella carne viva
– ... è come se mi prendessero a martellate la testa
– … è come se una morsa mi stritolasse …
Immagino e mi auguro che nessuno di noi abbia esperienza diretta di lame rigirate nel corpo, martellate, morse, lacerazioni e altre torture. Usiamo l’idea di un qualcosa che solo immaginiamo sicuri che tutti la immaginiamo nello stesso modo. C’è poi il dolore di “élite”, quello che unisce attraverso la medesima effettiva esperienza un gruppo determinato (il male provocato dall’infarto, dal trigemino, dalla sciatica …).
L’esempio più lampante è “come il dolore del parto”. Io, uomo, non posso conoscere in alcun modo questo dolore, dal quale sono escluso per natura. Ma neppure tutte le donne lo conoscono o sono destinate a conoscerlo. Forse che il solo fatto di essere femmina ne insinua un’atavica conoscenza? E se anche così fosse, possiamo essere certi che la risposta e la percezione di ogni donna sia la medesima?
Il dolore è la più intima delle realtà, la più nascosta delle verità, il più personale e inesprimibile dei pensieri, e l’esperienza di esso è influenzata da infiniti fattori.
Si pensi solo a quel parametro che definiamo “soglia di sopportazione”. C’è chi si vanta di averla altissima, chi inesistente … chi la prende come una gara a chi è più figo. Sicuramente, come diceva mia nonna: ognuno sente la sua!
Per quanto indefinibile, per quanto odioso, il dolore assolve comunque all’utilissima funzione di allarme per il nostro corpo. Pensa solo che se non ci fosse quel dolore alla milza continueresti a correre fino a lacerarti i tendini, se non ci fosse il pianto del tuo bimbo nella notte, non sapresti che ha la febbre alta, se il cuore non ti desse una stretta fino a indolenzirti il braccio, non avresti possibilità di controllare un infarto, se la carie non scaricasse fitte, perderesti tutti i denti.Tutti abbiamo esperienza del dolore, eppure ciascuno di noi può dire di conoscere realmente il suo solo dolore, perché è lecito pensare che ogni dolore sia unico e probabilmente irripetibile. Voglio usare un esempio brutto, pure un po’ becero per quanto immediato e di facile comprensione: mettiamo il caso di ricevere una martellata sulle dita della medesima intensità. Ebbene, tanto io che voi probabilmente grideremmo e tutti possiamo dire di sentire un forte dolore, ma nessuno può sapere se sia effettivamente il medesimo.
Ma se è tanto difficile, se non addirittura impossibile, definire e descrivere l’intensità di un male puramente fisico, pensiamo a quanto possa esserlo se ci addentriamo nel mistero della mente.
Palesare il dolore del pensiero, il tormento che non nasce da un organo irrorato di sangue e percorso da tendini e muscoli, è un’operazione titanica, per certi versi irrazionale.
Raccontarsi: sì, ok, ma come? Aspettandosi cosa?
Come può un estraneo entrare in quell’immensità che chiamiamo psiche senza perdervisi, immedesimarsi in quel “noi” che neppure noi conosciamo a fondo? Come può tendere in soccorso una mano se non è in grado di osservare il medesimo abisso, sentirne il medesimo odore e rumore?
Ce lo chiediamo, e come facile risposta troviamo la tattica del tacere. O meglio, tagliare fuori il resto del mondo dalla condivisione della nostra intimità emotiva, in un misto di superiorità, diffidenza e vergogna.
Quante volte ce lo siamo detto? Quante volte ce lo hanno detto! “Ma sì, tanto è inutile. Tanto che cosa vuoi che ne sappia uno psicologo!” … e siccome il male interiore non sanguina, non sporca, non odora, ci rassegniamo a conviverci. Ci sembra più facile, forse persino eroico, caricarci la nostra carogna sulla schiena e tirare dritto.
“Il dolore non è altro che la sorpresa di non conoscerci.” Lo ha detto Alda Merini, e c’è del vero. Quella che crediamo essere un’incapacità altrui, è in realtà la nostra.
Il dolore non è il male, ma solo il campanello. Quando scatta da dentro, dal profondo della mente, mette in guardia da una qualche carenza, … di attenzione, di conoscenza, di interesse.
Non ci conosciamo. Questo provoca dolore. Non conoscendoci, non sappiamo come e dove agire, e neppure contro chi o cosa. E poi abbiamo paura. Sì, è così: abbiamo paura che, indagando e scavando, il carico di dolore si faccia più pesante, e di fronte all’incognita del rischio, scegliamo la strada del non fare nulla.
Se lo psicologo fosse un dentista, potremmo dire che la tua mente è il dente, il male è la carie, e il dolore, l’angoscia, il campanello che essa sta rosicchiando da sotto il candore dello smalto.
Esattamente come puoi mantenere la salute della tua bocca attraverso una serie di comportamenti personali, ma soprattutto mediante il controllo costante di uno specialista, allo stesso modo puoi mantenere il controllo sullo stato di salute della tua mente.
Lo psicologo, lo psicoterapeuta, altro non è che il luogo in cui instaurare una relazione empatica, imparare a conoscere te stesso, ascoltarti, riconoscere i tuoi stessi segnali e messaggi più intimi.
Non sari giudicato, non sarai messo a confronto, non ti verrà chiesto di essere diverso da quello che sei. Inoltre il lavoro non si esaurirà nello spazio temporale e fisico della seduta, ma diventerà metodo, azione costante di dialogo con te stesso, tappa di un percorso.
Raccontare il proprio dolore. Non è così semplice, ma tanto importante. Non importa se non riuscirai a tratteggiarlo con parole; non chiederti se chi ti è di fronte è in grado di farlo suo, di comprenderlo nella sua intensità. Il vero obiettivo è capirne il messaggio, e darne una risposta. Insieme.
L’importante è iniziare, prendere quel telefono, scrivere quella mail, accendere quel contatto on line, e aprirsi, osare! Oppure assaporare una giornata di imminente primavera e venire a trovarmi a Monterotondo.
Buon vento 😉.
Non è perché le cose sono difficili che non osiamo farle; è perché non osiamo farle che le cose sono difficili.
Lucio Anneo Seneca
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online